Questa mia nota arriva a poche ore di distanza dalla proclamazione del vincitore del Campiello, dove le cose sono andate come mi aveva preannunciato un Covacich già rassegnato alla ennesima sconfitta, ma si può consolare pensando che uguale destino era toccato ai “Fratelli d’Italia” di Arbasino, e così lui può rimanere in corsa per un prossimo Strega. Ha vinto l’”usato sicuro” dell’”Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, su cui, si vada a vedere il mio giudizio di qualche domenica fa, mi ero espresso in termini abbastanza negativi. Ma si sa bene che il corpo votante del Premio veneto è in genere di bassa estrazione culturale, facile quindi che si lasci conquistare da un motivo “strappalacrime” della mai tramontante napoletudine. Ancora peggio si era comportato l’elettorato dello Strega, che aveva scavalcato un prodotto analogo, di Wanda Marasco, in definitiva meglio impaginato, più coerente, pur nel seguire vecchie e ben collaudate ricette. Per leggere i miei giudizi in merito alla cinquina dello Strega bisogna attendere i “pollici” affidati all’”immaginazione”, unica sede cartacea che mi è rimasta, ma assoggettata ai tempi lunghi delle pubblicazioni a stampa. Si vedrà come in quell’occasione mi sono permesso di rovesciare l’ordine d’arrivo, trascinando all’ultimo posto il vacuo romanzetto del vincitore Cognetti.
Ora per completare l’opera mi resta da esprimere un’opinione sul vincitore del Viareggio, Gianfranco Calligarich, con “La malinconia dei Crusich”. Noto intanto, con piacere, che la presenza di una giuria competente, e non “popolare”, come quella del Viareggio, ha i suoi vantaggi. Andando indietro negli anni registro un buono stato di servizio. L’anno scorso, Franco Cordelli, cui ho dedicato un “pollice” abbastanza “recto” proprio sull’”Immaginazione”, meritandomi perfino un apprezzamento dell’autore, dall’alto del suo attuale successo, verso un poverello come me, sceso ai minimi livelli. E mi pare di aver detto bene, da qualche parte, anche di Antonio Scurati, vincitore del Viareggio ’14, e in particolar modo dell’Alessandro Mari dell’11, che avevo anche presentato in uno dei miei incontri cortinesi. “Pollice verso”, invece, contro il mal cucito vincitore del ’12, Nicola Gardini.
Venendo ora al Calligarich, dico subito che nel complesso, nell’ambito delle tre premiazioni di quest’anno, mi sembra l’opera meglio riuscita, nonostante certe apparenze che potrebbero farla apparire alquanto scontata, sulla scia di opere precedenti. Siamo alla storia del secolo scorso percorsa a tappe, dalla prima guerra, con appendice coloniale, alla seconda e oltre, il tutto visto attraverso il succedersi di varie ondate generazionali, affidate a una numerosa figliolanza che si riproduce per li rami e può essere utilmente inviata a rendere testimonianza sui vari eventi storici, e pure nelle varie parti del mondo. Un’impresa che come si sa bene ha già avuto tanti cultori, alcuni in modi stanchi, bolsi, prevedibili, altri invece con accenti interessanti, capaci di apportare nuove conoscenze, si vedano i casi di Pennacchi e di Veltroni. Qui si va da un avo che parte da Trieste, con un gesto selvaggio e appassionato nello stesso tempo, di andare a svellere da una tomba l’immagine della donna amata e presto scomparsa, da portarsi dietro nelle tappe dell’esilio, tortuoso e movimentato. Questa la radice da cui nasce un albero ricco di fronde, di cui ovviamente non è possibile inseguire l’infinità delle svolte, dei percorsi, dei drammi, ma bisogna riconoscere al nostro autore l’abilità di piazzare sempre al momento giusto una similitudine felice, come quella a epilogo dei vari tempi passati nelle nostre colonie dal protagonista numero due, disperso nei “grandi cieli africani”, e ancora prima nella “invisibile gabbia degli anni”, che forse è la metafora migliore per sintetizzare tutto un simile brulichio di vicende. Queste ci fanno vedere i vari protagonisti da diversi angoli, del tempo e dello spazio. Per esempio, il patriarca, ormai invecchiato, divenuto un nonno cupo e accasciato, ha però i denti d’oro che lampeggiano “come faro”. Felice del resto la presentazione della famiglia, centro di gravità di tutto questo universo in continua espansione, definita “come un’isola”, quando i membri sparsi ai quattro angoli del mondo e delle fortune professionali riescono a ritrovarsi a tavola per qualche ricorrenza. Appropriati anche certi appunti di viaggio, come quando uno di questi argonauti giunge a Milano e ne contempla il Duomo, che gli sembra “un istrice di marmo”. E così via, questa lunga via crucis, che potrebbe apparire tediosa e prefabbricata, riesce quasi sempre a vivacizzarsi con un guizzo, un’invenzione, anche per il tono adottato dal narratore, che non è di fredda e scostante distanza, ma intermedio, quasi mettendosi nei panni dei suoi tanti personaggi. Se a vincere il Campiello fosse stato il Massini con la sua sapiente ballata dedicata alle vicende dei Lehman Brothers, avevo già pronta una battuta conclusiva, attribuendo a Calligarich una più accattivante ballata concepita dal basso, rivolta a glorificare una famigli qualunque, come ce ne sono tante, indipendente quindi dagli appuntamenti obbligati con la grande storia.
Gianfranco Calligarich, La malinconia dei Crusich, Bompiani, pp. 441, euro 20.