La telematica consente visite a distanza, sulle ali del virtuale, e dunque mi è possibile recarmi a Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, ad ammirare una retrospettiva dedicata a Guillaume Caillebotte (1838-1894), artista che riapre la questione dell’Impressionismo francese, aduggiata sotto l’ossequio stereotipare e ossessivo cui l’hanno ridotta le mostre di Marco Goldin, che di fatto l’hanno trasformata in una specie di monettismo dilagante. Artista senza dubbio grande, Claude, ma non privo di alcune pecche, come per esempio quella di triturare tutti i dati caduti sotto i suoi occhi, un po’ come le macchine che tagliuzzano i documenti ingombranti degli studi. E per Claude, il massimo degli ingombri da smembrare era niente meno che il corpo umano, a cominciare dal ritratto, sparito quasi del tutto dal suo repertorio, dopo qualche timida prova iniziale. Tanto che, per stigmatizzare un ostracismo del genere, ho adottato da tempo la formula che nei dipinti monettiani suona la sirena dell’allarme atomico, e spinge gli essere umani a evacuare la scena, a ritirarsi non sia sa bene dove, comunque a scomparire. Nel che Monet si trascina dietro Alfred Sisley, ed esercita pure un impatto su Camille Pissarro, inizialmente portato a inserire forti nuclei di racconto, nei suoi dipinti, ma poi, cedendo all’esempio del collega più giovane si dà anche lui a sminuzzare, a polverizzare, tanto che poi giunge ad accogliere il suggerimento dell’ancor più giovane Seurat accedendo al divisionismo, mentre mai e poi mai avrebbe seguito un altro suo allievo di qualità, Paul Gauguin, quando costui si sarebbe messo addirittura a valersi di stesure compatte.
Ma ritorniamo alla questione dell’Impressionismo, che i sostenitori della causa monettiana alla maniera di Goldin sarebbero pronti a unificare sotto alcuni precetti, come quello di evitare la componente umana in tutte le sue salse, se non fosse di inserire qualche apparizione civettuola di damine con l’ombrellino contro il sole. E dunque, se ne conclude, un impressionismo “comme il faut” evita il tema delle opere e i giorni. E beninteso si deve tenere ad accurata distanza ogni tentativo di imitazione che non rechi il timbro della Senna e dintorni. Non si profani quindi questa sacra parola pretendendo di applicarla a stanche imitazioni, come per esempio quelle provenienti dall’Italia, e dalle sue varie scuole regionali, Macchiaioli in testa. Io invece ho sempre protestato contro questi precetti, sostenendo che al contrario in quella tendenza c’era ampio posto per celebrare la presenza dell’uomo, e che, come tanti altri “ismi” dell’Occidente, si è trattato di un movimento comune ad ogni altro Paese della nostra cultura, compresi gli USA. Qualche anno fa il Musée d’Orsay ha osato fare una mostra, coraggiosa ma non troppo, ponendosi un interrogativo: “Les Macchiaioli: Impressionistes Italiens?”, ma appunto c’era l’interrogativo, e inoltre, ad accrescere un senso di prudente cautela, la mostra veniva spostata alla sede tutto sommato considerata “minore” dell’Orangerie. Io sono riuscito a farmi invitare nell’occasione a tenere una conferenza in merito, invitando a togliere senz’altro il punto interrogativo, ponendo inoltre un quesito, se cioè l’etichetta di Impressionismo debba comprendere in sé o no i casi eccelsi di Degas e di Manet. Se sì, come mi sembra ovvio, allora nella formula entra un massiccio impegno sul soggetto umano, nelle varie pose e situazioni, da affrontare a masse larghe, a silhouettes fortemente tracciate, senza cedere allo sbriciolio monettiano. E dunque, diviene legittimo porre sullo stesso piano i nostri Fattori e Lega e Cabianca, non solo, ma bisogna acquisire a questa eletta schiera, e forse addirittura con titolo di precedenza, alcuni statunitensi, come il grande Winslow Homer, e anche Thomas Eakins. Forse però, affermavo sempre in quella conferenza, si potrebbe intravedere una linea di divisione, da situare attorno al 1835: chi nasce “prima”, come appunto Degas, Manet e i nostri Macchiaioli sopra citati, è ancora attaccato al tema di figura e lo impagina magistralmente, mentre chi viene dopo ha la tendenza a sciogliere i corpi nell’acido atmosferico, il che vale anche dalle nostre parti, se si pensa a un Telemaco Signorini, nato proprio nel 1835, che si trascina dietro gli Abbati e Sernesi, riducendo le dimensioni delle opere e dipingendo “in piccolo”-
Ma Caillebotte, pur essendo nato in ritardo, contraddice a questa regola e rilancia il fare largo e robusto del duo Manet-Degas. Basti vedere i due capolavori con cui si presenta la rassegna madrilena, un “Barche a remi sul fiume Yerres”, 1877, dove spicca il guscio dei canotti, duro, coriaceo, anche se circondato dai riflessi dell’acqua, che però solca sicuro e determinato. Tutto il contrario della molle invasione cara a Monet, corrosiva, come se barche e persone fossero immerse in una piscina piena di acidi dissolventi. Qualcosa del genere vale anche per “Un balcone in Boulevard Hausmann”. Si sa che l’affacciarsi a una terrazza per contemplare la folla assiepata in un boulevard è pure un tema caro a Monet, ma nel suo caso siamo come colti da un senso di vertigine, tutto turbina davanti ai nostri occhi, la visione di sfilaccia in una serie infinita di piccole sensazioni. Nella tela di Caillebotte, invece, il personaggio affacciato mantiene una sua compattezza, ansi si sporge, come fosse un infisso, un tubo, una grondaia, ovvero non rinuncia a imporre una presenza, affidata anche a un contrasto luminoso, sul tipo di quelli che dominano i dipinti di Manet. Ma soprattutto, il capolavoro supremo di questo artista sta nel celebrare il lavoro anonimo degli artigiani che in un interno, e dunque respingendo sdegnosamente il canone del “plein air”, chini su un pavimento, procedono a rifarne il parquet, esigendo di vedersi riconosciuto un protagonismo addirittura eroico, altro che sottoscrivere un atto di abdicazione, di fuga da ogni responsabilità, di abbandono al deliquio di iridescenze e sfumature. Caillebotte amava scorrere sulle acque, ma appunto mirando ad aprirvi un solco, stabilendo con l’elemento mobile un fiero rapporto di colluttazione, sul tipo di quanto, di là dall’Atlantico, stavano pure facendo gli epici marinai di Winslow Homer.
Gustave Caillebotte, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, fino al 30 ottobre.