Impresa meritoria, quella dell’Editore Fazi, di averci proposto un’opera considerata minore, “Il professore”, della narratrice inglese Charlotte Brontë (1816-1855), appena più anziana per pochi anni rispetto alla sorella Emily. Di loro mi sono occupato in un mio saggio di vasto raggio, come è nella mia abitudine, che da Defoe procede diritto fino a Tolstoj, nel nome della “Narrativa europea in età moderna”, edito da Bompiani, che da un momento all’altro lo manderà al macero, senza neppure darmene avviso con la proposta di comprarne le molte copie giacenti a prezzi stracciati. In quel mio studio mosso da ambizioni totalizzanti c’era posto anche per la terza delle scrittrici inglesi dell’epoca, George Eliot, un trio superbo, che nella quantità, congiunta alla qualità, confermava in definitiva la superiorità della produzione d’oltre Manica rispetto a quanto nello stesso secolo erano riusciti a fare i francesi, che sul versante femminile riuscivano a mettere in campo la sola George Sand. Riconosciuta l’opportunità di far conoscere anche ai nostri lettori questo romanzo, non si può però sottoscrivere un parere riportato nel retro del libro, emesso dall’autrice stessa, secondo cui quest’opera sarebbe “ il punto più alto della mia scrittura”, ricco di “più essenza, più sostanza e più realtà che in buona parte di Jane Eyre”. No, non è facile sovvertire certi giudizi confermati nel tempo, e bisogna anche guardarsi dallo spirito protettivo dei genitori, indotti spesso a correre in difesa dei figli che l’opinione pubblica considera più deboli e gracili. “Jane Eyre” resta il punto più alto della produzione di Charlotte, a cominciare dalla buona ragione che la protagonista è donna come lei. Invece in questa prova alternativa la scrittrice tenta di porsi nei panni di un maschio, William Crimsworth. Ma il tentativo di spostamento sessuale del protagonista è riuscito solo al fondatore inglese dell’intero genere, al Defoe, superbo e sicuro anche quando entra nei panni di Moll Flanders e di Lady Roxana. Qui invece, finché a dominare c’è l’eroe al maschile, scorgiamo in controluce esitazioni e insicurezze, mentre poi quando al termine compare una figura femminile, questa ci appare davvero provvidenziale e risolutrice, come una Jane Eyre chiamata in soccorso, ma forse troppo tardi per l’economia complessiva del romanzo.
Beninteso in partenza sia il “professore” William, sia Jane, vengono messi nella stessa posizione, che è di infelicità e fatica di vivere, come era sorte comune nei decenni centrali della modernità, in cui dominava quello che, nel mio saggio sopra ricordato, definivo l’”homo oeconomicus”, e dunque, guai ai vinti, a coloro che nascevano con poca roba, quasi privi di eredità da genitori troppo presto scomparsi, lasciandoli in balia di padrini e madrine dispotici e tirannii o, come in questo caso, di un fratello maggiore, spietato nel perseguire il proprio utile e nel degradare il povero congiunto al rango di misero sottoposto, senza alcuna concessione alla voce del sangue. Le due storie procedono in parallelo destinando entrambi gli eroi a guadagnarsi il magro pane attraverso un’attività didattica, che parte anch’essa nel segno delle privazioni e umiliazioni, ma poi conosce sprazzi di fortuna, fino a esiti insperatamente positivi Bisogna riconoscere che la parte centrale di questo romanzo è la migliore, dato che William trova un posto decoroso di insegnante in un istituto privato in Belgio, a Bruxelles, accolto apparentemente in modi accondiscendenti da un mellifluo Monsieur Pellet, che però lo relega in una angusta stanzetta, lo sottopone a un cibo mediocre e ripetitivo, e gli fa tappare una finestrella da cui il professore potrebbe rallegrarsi lo spirito gettando occhiate fugaci su un cortiletto riservato alle allieve di un contiguo collegio femminile. Ma c’è di più, infatti per un colpo di fortuna (le regole strette dello “struggle for life” possono subire eccezioni) il nostro professorino viene addirittura ammesso a dare lezioni, ovviamente di inglese, a signorine di buona famiglia, alcune delle quali, però, spocchiose, fiere del loro buono stato di fortuna, gli rendono l’insegnamento assai difficile, e ci si mette anche la direttrice di questo gineceo, Mademoiselle Reuter, con una condotta ambigua. Il Nostro non riesce a capire se vi sia implicata una offerta di relazione sessuale o no. D’altra parte, approfittando della specola offerta dalla sua cameretta, egli scopre che in realtà i due ipocriti si parlano, sono in combutta. Ma tra le varie allieve compare anche il “brutto anatroccolo”, il cigno nero, tale Mademoiselle Henri, che a tutta prima si presenta in veste modesta, insignificante, perché esercita un mestiere manuale, e dunque viene accolta quasi per pietà. Ma in sostanza, forse inconsciamente, l’autrice ha rintracciato in lei l’equivalente di Jane Eyre. Infatti, come avviene nel capolavoro, in cui la protagonista, poco alla volta, si risolleva dalla sua posizione inferiore e di sottomissione al signore del castello giungendo fino a un rovesciamento delle parti, così pure in questa vicenda sarà proprio la figura in apparenza minore ad acquistare grinta, importanza, a sollevare William da tutti i suoi stati di bisogno e di sofferenza, fino a rendergli la vita confortevole e sopportabile. Volendo, si potrebbe pure rintracciare, sempre in punteggiato, una parte rispondente a quella che, nell’altro romanzo, è impersonata dal signore del castello, bizzoso, ipocondriaco, ma in definitiva davvero affezionato alla debole eroina che si è presentata alla sua porta. Anche qui, accanto a un William sempre bisognoso di soccorso compare un facoltoso Hundsen che in parte ostenta di disprezzarlo, ma non manca mai di assisterlo al momento buono. Ce lo dice infatti tutto il decorso della narrativa moderna, con relativo dominio delle ferree regole dell’economia. Ogni tanto interviene un deus ex machina, magari nella forma di un’eredità imprevista, a sollevare dalle peste i poveri anatroccoli e a trasportarli “in più spirabil aere”.
Charlotte Brontë, Il professore, Fazi Editore, pp. 298, euro 18.