Arte

Boldini tra immobilità e movimentismo

E’ andato all’asta nei giorni scorsi, non so con quale esito, un capolavoro di Giovanni Boldini, il Ritratto di Donna Franca Florio, usualmente visibile all’Hotel Villa Igea di Palermo, trascinato in guai giudiziari da una crisi della proprietà. Pare che i palermitani si siano quotati per riacquistare l’opera e impedirne l’allontanamento da un luogo-simbolo della città. Intanto il dipinto è visibile in una mostra al Vittoriano della capitale, in una di quelle comparse che ormai gli sono state dedicate a iosa, secondo quella assoluta noncuranza di una qualsivoglia ben regolata gestione nel far mostre che purtroppo è tra i mali endemici nel nostro Paese. Dopo un periodo di stallo, o addirittura di damnatio memoriae, ora Boldini viene esibito a ogni pie’ sospinto. Non era certo così appena pochi decenni fa, e mi corre l’obbligo di ricordare che a interrompere quel regime di astinenza immemore c’è stata mia moglie Alessandra Borgogelli, cui si deve una prima retrospettiva di rilancio del pittore ferrarese, da lei curata assieme a un più anziano pioniere come Ettore Camesasca, alla Permanente di Milano, nel 1989. Dopo quella prima impresa Sandra è tornata all’opera quando addirittura lo storico Musée Marmottan di Parigi volle esso pure ricordare quel personaggio, dominatore della belle époque, e di nuovo fu a fianco di Gabriella Belli quando, non ancora insediata al Mart di Rovereto, e disponendo solo di Villa delle Albere a Trento, propose di nuovo Boldini, congiunto con gli altri due Italiani di Parigi, Giuseppe De Nittis e Federico Zandomeneghi, un trio poi rivisto tante altre volte. In quella mostra compariva anche un sottotitolo apotropaico: “Impressionisti? Grazie no”, infelice e abusivo, in quanto prigioniero di una concezione troppo restrittiva ed elitaria di quel movimento, volta a premiarne solo la variante francese, e in particolare ad assegnare un primato al solo Monet, fino a farne in sostanza un “monettismo”. Invece, nella stessa interpretazione datane da Sandra, il fenomeno era da allargare, oltre la Senna, fino a coinvolgere tante altre regioni del mondo non solo europeo, ma occidentale in generale. Eppure, certo, il Boldini ritrattista alla moda di donne fatali, di regine dei salotti sembrava fatto apposta per tradire gli ideali di adesione a una realtà rugosa e prosaica che in genere si considerano connaturati con l’Impressionismo “alla francese”. Invece l’artista ferrarese-parigino operava su quei corpi eccellenti una stilizzazione nobilitante, fino a rasentare il cattivo gusto, il kitsch, come se fossero dei cani di razza, dei levrieri da corsa, degni del premuroso allevamento che negli stessi anni dedicava loro un altro personaggio “chiacchierato” come D’Annunzio. Visto che in questo momento si celebra, anche qui per l’ennesima volta, ripetendo un rito stanco e privo di fantasia, il grande Modigliani con le sue stilizzazioni estreme, come non dire che già quel suo predecessore andava verso la medesima soluzione, seppure giocandola in chiave di verosimiglianza, proprio come un fotografo che, pur costretto al responso fedele dell’occhio meccanico, cerca comunque di truccare, di adulterare il soggetto cui è chiamato? Ammettiamo pure che in quella nobilitazione forzata sta un connotato abbastanza dissidente rispetto alla navigazione realista che si conveniva in quello scorcio di stagione, però quanta straordinaria mobilità frusciante, per esempio, nell’abito della dama, che proprio quell’allungamento smodato porta a distendersi, come fosse un supplemento artificiale di una vegetazione investita da una folata di vento che la fa arricciare in mille pieghe, pronte a cogliere barbagli, riflessi, proprio come onde in un bacino o in un mare in tempesta? Invece di sdilinquirci nel culto delle Ninfee monettiane, perché non compiacerci nell’ammirare questi flutti prodotti sul filo di un tessuto, nell’esibizione di un prodotto merceologico? Questo dinamismo trova poi il più suggestivo coronamento nella collana, anch’essa prolungata oltre ogni eccesso, quasi per trascinarsi dietro le dimensioni corporali della nobildonna, quasi invitandola a inciampare in quel laccio, giocando con esso al salto della corda. E la medesima spinta si impadronisce anche delle scarpette, che a loro volta si allungano come siluri appuntiti, quasi col desiderio di forare la tela e di balzarne fuori. Del resto tutta l’arte boldiniana è duplice, diarchica. Se nella modellazione dei corpi, nella componente ritrattistica egli si mostra ligio ai doveri quasi cortigiani e adulatori del pittore alla moda, al servizio dei committenti, non appena ritiene di aver esaurito un tale compito e venendo ai margini del corpo centrale egli si abbandona a un movimentismo esagitato. Il corpo di donna funziona quasi da argine, da territorio franco, su cui si abbattono i marosi dell’informe che preme tutto attorno, che aggredisce lo spazio a scudisciate, magari avvalendosi ancora di qualche pretesto pescato in motivi verosimili. Forse è un prezioso divanetto o sedia di falso stile rococò, con i suoi preziosi stucchi e dorature, a fornire uno spunto di partenza, ma certo è che da una staticità inerte il prezioso mobile si trasforma come in una selva di girandole, di fuochi d’artificio pronti ad accendersi, a minacciare la stessa integrità della figura femminile. Queste aggressioni periferiche funzionano da motivo di compenso e di riscatto per tutte le sdolcinature di cui senza dubbio il pittore è stato oculato e interessato amministratore.

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