Il solito viaggetto virtuale della domenica questa volta ci porta poco lontano, appena al di là del confine svizzero, a Lugano, città di solide lingua e tradizioni italiane, il cui MASI (Museo d’Arte della Svizzera Italiana) propone una interessante accoppiata, di Alighiero Boetti (1940-1994) e Salvo (1947-2015). Senza dubbio i due, troppo presto scomparsi, ebbero in vita, soprattutto nei primi anni, eccellenti rapporti, come dimostra una foto in cui li vediamo intenti entrambi a sfidarsi a braccio di ferro. Del resto, nessuna meraviglia in proposito, ebbero tutti e due le loro radici nel fertile suolo della Torino sessantottesca, felice sede dell’Arte povera, nelle sue varie espressioni. Ma i due presto diversificarono i rispettivi percorsi, pertanto non so se sia stata saggia l’idea di associarli in modo un po’ forzoso, meglio sarebbe dedicare a ciascuno di loro un’ampia retrospettiva, del resto a far questo abbiamo tutto il tempo e tanti musei d’Europa, suppongo, disponibili. Boetti è stato fin dall’inizio e poi per tutto il tempo della sua carriera, l’artista disposto a “giocare ai dadi”, a sfidare la sorte, ad accettarne gli esiti e a mutarli in virtù, si trattasse di quadrettare a caso i fogli di una carta millimetrata, o di assemblare uno stuolo di aeroplanini, o di tracciare una mappa con i luoghi di residenza degli amici. E anche il gran finale, oggi premiato da un enorme successo di pubblico e di mercato, dato che vi compare il piacere del colore, risulta come un esito preterintenzionale. In fondo, anche nella nascita dello stuolo copioso dei suoi tappeti e arazzi, Boetti non è venuto meno alle solite procedure, si è affidato alla sorte imposta dall’atlante politico, con le varie nazioni che si distinguono tra loro per intense stesure cromatiche, che mettono in rilievo per contrasto lo zigzagare dei confini, frastagliati, dentati, pronti a insinuarsi gli uni negli altri. Ma in definitiva, anche nel far nascere questa fortunata produzione, Boetti è rimasto ligio ai precetti del “concettuale”, non fare nulla con le proprie mani, condurre scelte “nella propria testa”, dando poi ordine a fedeli ed esperte maestranze dei paesi dell’Est di rendere queste combinazioni con la sapienza delle tessiture, quella stessa che ha fatto nascere nei secoli i tappeti persiani e il loro mito.
Salvo invece, dopo un passaggio attraverso i riti anonimi della fotografia, ha deciso di tornare a impugnare il pennello, inaugurando la fase di un nuovo “richiamo all’ordine” che ha caratterizzato tutti gli anni Settanta e oltre, ma in definitiva la critica internazionale non gli ha perdonato questo gesto spavaldo di violazione di un codice accettato, che invitava proprio a non dipingere più. Su di lui, in definitiva, è caduto un interdetto che lo tiene lontano dalle mostre ufficiali, il che si è ripetuto anche per il compagno di cordata di quel momento, Luigi Ontani, finché quest’ultimo, ancora e più che mai sulla breccia, si è guadagnato un posto di assoluta eccellenza, anche a danno dei Transavanguardisti a cui la corte internazionale ha insistito, e insiste tuttora nel decretare un ormai immotivato privilegio. Del resto è lo stesso discredito che a lungo ha pesato perfino su De Chirico, ammirato per tutto il periodo metafisico, poi fatto oggetto di scherno e ludibrio, fino a comprendere come egli fosse un gigante, pronto a ispirare tutto il cosiddetto postmoderno. E il pennello, intriso di succhi ardenti e fosforici, che De Chirico sapeva brandire con accanimento terapeutico, dalle sue mani è passato in quelle di Salvo, che ne è stato il perfetto, esemplare continuatore, anche nelle dichiarazioni, stese tra il serio e il faceto, di dover essere considerato un “pictor optimus”. Per mio conto, sono sempre stato pronto a riconoscergli questo titolo di gloria, e non vedo l’ora che un’ampia rassegna monoposto gli restituisca tutta l’importanza che merita, in barba ai “curators” che magari ancora mugugnano e hanno titubanze a riconoscergliela.
Alighiero Boetti e Salvo, Vivere lavorando giocando, a cura di Bettina della Casa, Lugano, MASI, fino al 27 agosto.
Il solito viaggetto virtuale della domenica questa volta ci porta poco lontano, appena al di là del confine svizzero, a Lugano, città di solide lingua e tradizioni italiane, il cui MASI (Museo d’Arte della Svizzera Italiana) propone una interessante accoppiata, di Alighiero Boetti (1940-1994) e Salvo (1947-2015). Senza dubbio i due, troppo presto scomparsi, ebbero in vita, soprattutto nei primi anni, eccellenti rapporti, come dimostra una foto in cui li vediamo intenti entrambi a sfidarsi a braccio di ferro. Del resto, nessuna meraviglia in proposito, ebbero tutti e due le loro radici nel fertile suolo della Torino sessantottesca, felice sede dell’Arte povera, nelle sue varie espressioni. Ma i due presto diversificarono i rispettivi percorsi, pertanto non so se sia stata saggia l’idea di associarli in modo un po’ forzoso, meglio sarebbe dedicare a ciascuno di loro un’ampia retrospettiva, del resto a far questo abbiamo tutto il tempo e tanti musei d’Europa, suppongo, disponibili. Boetti è stato fin dall’inizio e poi per tutto il tempo della sua carriera, l’artista disposto a “giocare ai dadi”, a sfidare la sorte, ad accettarne gli esiti e a mutarli in virtù, si trattasse di quadrettare a caso i fogli di una carta millimetrata, o di assemblare uno stuolo di aeroplanini, o di tracciare una mappa con i luoghi di residenza degli amici. E anche il gran finale, oggi premiato da un enorme successo di pubblico e di mercato, dato che vi compare il piacere del colore, risulta come un esito preterintenzionale. In fondo, anche nella nascita dello stuolo copioso dei suoi tappeti e arazzi, Boetti non è venuto meno alle solite procedure, si è affidato alla sorte imposta dall’atlante politico, con le varie nazioni che si distinguono tra loro per intense stesure cromatiche, che mettono in rilievo per contrasto lo zigzagare dei confini, frastagliati, dentati, pronti a insinuarsi gli uni negli altri. Ma in definitiva, anche nel far nascere questa fortunata produzione, Boetti è rimasto ligio ai precetti del “concettuale”, non fare nulla con le proprie mani, condurre scelte “nella propria testa”, dando poi ordine a fedeli ed esperte maestranze dei paesi dell’Est di rendere queste combinazioni con la sapienza delle tessiture, quella stessa che ha fatto nascere nei secoli i tappeti persiani e il loro mito.
Salvo invece, dopo un passaggio attraverso i riti anonimi della fotografia, ha deciso di tornare a impugnare il pennello, inaugurando la fase di un nuovo “richiamo all’ordine” che ha caratterizzato tutti gli anni Settanta e oltre, ma in definitiva la critica internazionale non gli ha perdonato questo gesto spavaldo di violazione di un codice accettato, che invitava proprio a non dipingere più. Su di lui, in definitiva, è caduto un interdetto che lo tiene lontano dalle mostre ufficiali, il che si è ripetuto anche per il compagno di cordata di quel momento, Luigi Ontani, finché quest’ultimo, ancora e più che mai sulla breccia, si è guadagnato un posto di assoluta eccellenza, anche a danno dei Transavanguardisti a cui la corte internazionale ha insistito, e insiste tuttora nel decretare un ormai immotivato privilegio. Del resto è lo stesso discredito che a lungo ha pesato perfino su De Chirico, ammirato per tutto il periodo metafisico, poi fatto oggetto di scherno e ludibrio, fino a comprendere come egli fosse un gigante, pronto a ispirare tutto il cosiddetto postmoderno. E il pennello, intriso di succhi ardenti e fosforici, che De Chirico sapeva brandire con accanimento terapeutico, dalle sue mani è passato in quelle di Salvo, che ne è stato il perfetto, esemplare continuatore, anche nelle dichiarazioni, stese tra il serio e il faceto, di dover essere considerato un “pictor optimus”. Per mio conto, sono sempre stato pronto a riconoscergli questo titolo di gloria, e non vedo l’ora che un’ampia rassegna monoposto gli restituisca tutta l’importanza che merita, in barba ai “curators” che magari ancora mugugnano e hanno titubanze a riconoscergliela.
Alighiero Boetti e Salvo, Vivere lavorando giocando, a cura di Bettina della Casa, Lugano, MASI, fino al 27 agosto.
Il solito viaggetto virtuale della domenica questa volta ci porta poco lontano, appena al di là del confine svizzero, a Lugano, città di solide lingua e tradizioni italiane, il cui MASI (Museo d’Arte della Svizzera Italiana) propone una interessante accoppiata, di Alighiero Boetti (1940-1994) e Salvo (1947-2015). Senza dubbio i due, troppo presto scomparsi, ebbero in vita, soprattutto nei primi anni, eccellenti rapporti, come dimostra una foto in cui li vediamo intenti entrambi a sfidarsi a braccio di ferro. Del resto, nessuna meraviglia in proposito, ebbero tutti e due le loro radici nel fertile suolo della Torino sessantottesca, felice sede dell’Arte povera, nelle sue varie espressioni. Ma i due presto diversificarono i rispettivi percorsi, pertanto non so se sia stata saggia l’idea di associarli in modo un po’ forzoso, meglio sarebbe dedicare a ciascuno di loro un’ampia retrospettiva, del resto a far questo abbiamo tutto il tempo e tanti musei d’Europa, suppongo, disponibili. Boetti è stato fin dall’inizio e poi per tutto il tempo della sua carriera, l’artista disposto a “giocare ai dadi”, a sfidare la sorte, ad accettarne gli esiti e a mutarli in virtù, si trattasse di quadrettare a caso i fogli di una carta millimetrata, o di assemblare uno stuolo di aeroplanini, o di tracciare una mappa con i luoghi di residenza degli amici. E anche il gran finale, oggi premiato da un enorme successo di pubblico e di mercato, dato che vi compare il piacere del colore, risulta come un esito preterintenzionale. In fondo, anche nella nascita dello stuolo copioso dei suoi tappeti e arazzi, Boetti non è venuto meno alle solite procedure, si è affidato alla sorte imposta dall’atlante politico, con le varie nazioni che si distinguono tra loro per intense stesure cromatiche, che mettono in rilievo per contrasto lo zigzagare dei confini, frastagliati, dentati, pronti a insinuarsi gli uni negli altri. Ma in definitiva, anche nel far nascere questa fortunata produzione, Boetti è rimasto ligio ai precetti del “concettuale”, non fare nulla con le proprie mani, condurre scelte “nella propria testa”, dando poi ordine a fedeli ed esperte maestranze dei paesi dell’Est di rendere queste combinazioni con la sapienza delle tessiture, quella stessa che ha fatto nascere nei secoli i tappeti persiani e il loro mito.
Salvo invece, dopo un passaggio attraverso i riti anonimi della fotografia, ha deciso di tornare a impugnare il pennello, inaugurando la fase di un nuovo “richiamo all’ordine” che ha caratterizzato tutti gli anni Settanta e oltre, ma in definitiva la critica internazionale non gli ha perdonato questo gesto spavaldo di violazione di un codice accettato, che invitava proprio a non dipingere più. Su di lui, in definitiva, è caduto un interdetto che lo tiene lontano dalle mostre ufficiali, il che si è ripetuto anche per il compagno di cordata di quel momento, Luigi Ontani, finché quest’ultimo, ancora e più che mai sulla breccia, si è guadagnato un posto di assoluta eccellenza, anche a danno dei Transavanguardisti a cui la corte internazionale ha insistito, e insiste tuttora nel decretare un ormai immotivato privilegio. Del resto è lo stesso discredito che a lungo ha pesato perfino su De Chirico, ammirato per tutto il periodo metafisico, poi fatto oggetto di scherno e ludibrio, fino a comprendere come egli fosse un gigante, pronto a ispirare tutto il cosiddetto postmoderno. E il pennello, intriso di succhi ardenti e fosforici, che De Chirico sapeva brandire con accanimento terapeutico, dalle sue mani è passato in quelle di Salvo, che ne è stato il perfetto, esemplare continuatore, anche nelle dichiarazioni, stese tra il serio e il faceto, di dover essere considerato un “pictor optimus”. Per mio conto, sono sempre stato pronto a riconoscergli questo titolo di gloria, e non vedo l’ora che un’ampia rassegna monoposto gli restituisca tutta l’importanza che merita, in barba ai “curators” che magari ancora mugugnano e hanno titubanze a riconoscergliela.
Alighiero Boetti e Salvo, Vivere lavorando giocando, a cura di Bettina della Casa, Lugano, MASI, fino al 27 agosto.
Il solito viaggetto virtuale della domenica questa volta ci porta poco lontano, appena al di là del confine svizzero, a Lugano, città di solide lingua e tradizioni italiane, il cui MASI (Museo d’Arte della Svizzera Italiana) propone una interessante accoppiata, di Alighiero Boetti (1940-1994) e Salvo (1947-2015). Senza dubbio i due, troppo presto scomparsi, ebbero in vita, soprattutto nei primi anni, eccellenti rapporti, come dimostra una foto in cui li vediamo intenti entrambi a sfidarsi a braccio di ferro. Del resto, nessuna meraviglia in proposito, ebbero tutti e due le loro radici nel fertile suolo della Torino sessantottesca, felice sede dell’Arte povera, nelle sue varie espressioni. Ma i due presto diversificarono i rispettivi percorsi, pertanto non so se sia stata saggia l’idea di associarli in modo un po’ forzoso, meglio sarebbe dedicare a ciascuno di loro un’ampia retrospettiva, del resto a far questo abbiamo tutto il tempo e tanti musei d’Europa, suppongo, disponibili. Boetti è stato fin dall’inizio e poi per tutto il tempo della sua carriera, l’artista disposto a “giocare ai dadi”, a sfidare la sorte, ad accettarne gli esiti e a mutarli in virtù, si trattasse di quadrettare a caso i fogli di una carta millimetrata, o di assemblare uno stuolo di aeroplanini, o di tracciare una mappa con i luoghi di residenza degli amici. E anche il gran finale, oggi premiato da un enorme successo di pubblico e di mercato, dato che vi compare il piacere del colore, risulta come un esito preterintenzionale. In fondo, anche nella nascita dello stuolo copioso dei suoi tappeti e arazzi, Boetti non è venuto meno alle solite procedure, si è affidato alla sorte imposta dall’atlante politico, con le varie nazioni che si distinguono tra loro per intense stesure cromatiche, che mettono in rilievo per contrasto lo zigzagare dei confini, frastagliati, dentati, pronti a insinuarsi gli uni negli altri. Ma in definitiva, anche nel far nascere questa fortunata produzione, Boetti è rimasto ligio ai precetti del “concettuale”, non fare nulla con le proprie mani, condurre scelte “nella propria testa”, dando poi ordine a fedeli ed esperte maestranze dei paesi dell’Est di rendere queste combinazioni con la sapienza delle tessiture, quella stessa che ha fatto nascere nei secoli i tappeti persiani e il loro mito.
Salvo invece, dopo un passaggio attraverso i riti anonimi della fotografia, ha deciso di tornare a impugnare il pennello, inaugurando la fase di un nuovo “richiamo all’ordine” che ha caratterizzato tutti gli anni Settanta e oltre, ma in definitiva la critica internazionale non gli ha perdonato questo gesto spavaldo di violazione di un codice accettato, che invitava proprio a non dipingere più. Su di lui, in definitiva, è caduto un interdetto che lo tiene lontano dalle mostre ufficiali, il che si è ripetuto anche per il compagno di cordata di quel momento, Luigi Ontani, finché quest’ultimo, ancora e più che mai sulla breccia, si è guadagnato un posto di assoluta eccellenza, anche a danno dei Transavanguardisti a cui la corte internazionale ha insistito, e insiste tuttora nel decretare un ormai immotivato privilegio. Del resto è lo stesso discredito che a lungo ha pesato perfino su De Chirico, ammirato per tutto il periodo metafisico, poi fatto oggetto di scherno e ludibrio, fino a comprendere come egli fosse un gigante, pronto a ispirare tutto il cosiddetto postmoderno. E il pennello, intriso di succhi ardenti e fosforici, che De Chirico sapeva brandire con accanimento terapeutico, dalle sue mani è passato in quelle di Salvo, che ne è stato il perfetto, esemplare continuatore, anche nelle dichiarazioni, stese tra il serio e il faceto, di dover essere considerato un “pictor optimus”. Per mio conto, sono sempre stato pronto a riconoscergli questo titolo di gloria, e non vedo l’ora che un’ampia rassegna monoposto gli restituisca tutta l’importanza che merita, in barba ai “curators” che magari ancora mugugnano e hanno titubanze a riconoscergliela.
Alighiero Boetti e Salvo, Vivere lavorando giocando, a cura di Bettina della Casa, Lugano, MASI, fino al 27 agosto.