Venerdì prossimo 18 novembre sono invitato a una sessione dell’ampio convegno organizzato per celebrare il secolo dalla nascita di Giorgio Bassani, distribuito in due sedi, Roma e Ferrara, e proprio nella città estense, quasi in chiusura, è stata posta una tavola rotonda coraggiosa che convoca alcuni esponenti del Gruppo 63, come lo scrivente e Fausto Curi, assieme a significativi rappresentanti della narrativa e della critica di tempi recenti. Magari, a posteriori, fornirò un mio resoconto di come le cose sono andate, in attesa che escano gli atti del convegno stesso, ma qui mi permetto di anticipare alcune delle riflessioni che sicuramente andrò a svolgere. Intanto, una osservazione preliminare. Il 63 fu per noi niente affatto una data inaugurale, ma piuttosto la conclusione di un ciclo, ovvero l’affioramento della punta di un iceberg che si era già dato robuste radici. Se proprio si vuole trovare una giusta data di partenza del nostro movimento, questa non può non essere il ’56 della fondazione del “Verri” di Luciano Anceschi, che ha chiamato a raccolta i futuri esponenti del Gruppo, accogliendo anche i loro primi guanti di sfida. E’ anche bene precisare che “Il Verri”, proprio in ambito di narrativa, teneva all’inizio un passo prudente, tanto da chiamare come numero uno un convinto sostenitore del clima di quegli anni come Giorgio Barberi Squarotti. Fummo noi “giovani turchi”, Angelo Guglielmi e io stesso, a ribellarci a protestare contro il pacifico trotto tenuto dal critico tornese, e Bassani fu proprio una vittima di questo nostro giudizio radicale. A un numero della rivista uscito nel ’60 io affidai un veemente “Cahier des doléances” verso i vari Bassani, Cassola, Pasolini. Fu, la mia e di altri, una specie di dichiarazione da “professorini” quali in sostanza eravamo, io e Curi già avviati su un percorso universitario, come il capofila Sanguineti, mentre Balestrini e Guglielmi avevano optato per un percorso nei mass media. Si trattava di una bocciatura perentoria: no, quei romanzi non meritavano la sufficienza, erano fuori da un livello di cultura, di rispondenza a una situazione degna degli anni Cinquanta, di un’Italia che si accingeva a lasciarsi alle spalle i vecchi tempi di sana ma limitata civiltà contadina e piccolo-borghese per affrontare le vie di un più dinamico progresso, recuperando i ritardi inflitti dall’autarchia fascista, riattivando i contatti con i padri delle avanguardie storiche. Quei testi che allora andavano per la maggiore, sostenuti dall’assenso prudente di Barberi Squarotti, risultavano insufficienti. Ora, in ritardo, leggendo la prefazione che Roberto Cotroneo ha steso per il Meridiano dedicato a Bassani, scopro che un giudizio del genere era stato emesso anche da Italo Calvino. Si vedano le sue parole riportate alla p. LXXIV della detta edizione: “… a Cassola rimprovero una certa epidemicità di reazioni nei rapporti umani, e a Bassani il fondo di crepuscolarismo prezioso”. Perfetto, in fondo io venivo a dare un medesimo giudizio limitativo, anche prima che uscisse “Il giardino dei Finzi Contini”, cui del resto ho dedicato, sempre sulle pagine del “Verri”, e poi nella “Barriera del naturalismo”, una stroncatura più o meno modulata nei medesimi termini, di prodotto vecchio, superstite dalla stagione “tra le due guerre”, anche per quella velleitaria ripresa del tema dell’antisemitismo, per carità, tema reale, vergognoso per la coscienza del popolo italiano, ma rievocarlo a tanta distanza era solo un modo facile e retorico di acquistarsi titoli di benemerenza, di appuntarsi una medaglia al petto. Oggi non posso che confermare quella lontana bocciatura, non ci sono margini per un revisionismo, che semmai potrebbe trarre qualche alimento da “Gli occhiali d’oro”, o da qualche “Storia ferrarese”, mai e poi mai dal “Giardino”. Oggi il senno del poi mi servirebbe per colmare qualche lacuna. Infatti allora, al di là delle bocciature, della “pars destruens” che percorrevamo con grinta e convinzione, avevamo difficoltà a contrapporre una qualche “pars construens”. Io effettuavo l’operazione di recupero storico di due padri fondatori, ritrovati in Svevo e Pirandello, altri puntava su Gadda, con qualche mio dubbio, ma con l’ammissione che comunque il polistilismo dell’Ingenere era più intrigante rispetto a quello troppo scolastico tentato da Pasolini. Dalle retrovie degli anni Trenta, e contro la limitatezza dei Bassani e Cassola, io ripescavo pure la prosa “slow” fino all’eccesso di Bonsanti. Forse avremmo dovuto puntare con più decisione sui Gettoni di Vittorini, e di Calvino narratore in prima persona, però non dimentichiamo che l’Italo Amleto in qualche modo aveva rinnegato gli sperimentalismi, suoi e di altri, di quella stagione per confluire a sostegno dell’establishment, a farsi difensore proprio di una indiscutibile eccellenza di Bassani e compagni. Caso mai, Sanguineti ci aveva mostrato la possibilità di recuperare Lucentini e la sua “parlata bassa” e ibridante, prologo a quanto egli avrebbe fatto con ben altra convinzione nel suo “Capriccio italiano”. Oggi, dopo analisi più circospette, sarei propenso a salvare Beppe Fenoglio, e qualche anno dopo avrei incontrato il mirabile caso di Domenico Rea, avrei insomma imparato a popolare quell’apparente deserto con qualche nome apprezzabile. Ma i Bassani e Cassola e Pasolini, no, questi non superano la sufficienza, non passano l’esame.