Seguo da tempo, con adesione crescente, la multiforme attività di narratore, saggista, giornalista di Roberto Barbolini, che ormai si trascina dietro una numerosa serie di opere, ma forse tutte riconducibili a un fenomeno cui si può dare un “correlativo oggettivo” ricavato dalla gastronomia, ingrediente immancabile in uno scrittore che si vanta delle sue origini emiliane. Dopotutto, in questo curriculum sono comprese “Ricette di famiglia”, del 2011. Mi viene dunque in mente l’operazione di chi macina col tritacarne dei cibi in partenza solidi, e magari anche distinguibili tra loro, separati, ma poi ne esce una striscia continua, multiforme, con tante striature e sfumature. E soprattutto quello che conta è il gesto con cui il condutttore dell’operazione fa scattare il taglio secco e perentorio che interrompe quelle emissioni, ottenendone dei segmenti di varia lunghezza. Questa dinamica spiega la ragione per cui nella produzione di Barbolini si alternano pezzi lunghi, di cose che puntano alla dimensione del romanzo, e altri invece perfino troppo brevi. Questo è anche il carattere della raccolta appena uscita, “Vampiri conosciuti di persona”. Se si va all’indice e si contano le pagine dei vari pezzi raccolti, si vedrà appunto come il coltello del cuoco abbia tagliato secondo misure varie e irregolari, qualche volta forse perfino troppo rapidamente. Ma per tornare al carattere multiforme, eteroclito dell’impasto, prendiamo ancora il titolo dell’ultimo nato, dove a un mostro sacro, orrorifico come quello dei vampiri viene assegnato un carattere del tutto intimo, privato, colloquiale, insito in quell’essere “conosciuti di persona”. Ovvero, Barbolini pratica allegramente un mix tra il sacro e il profano, tra punte di raffinata preparazione culturale, degna di chi ha studiato alla corte di Luciano Anceschi, e improvvise incursioni verso il basso, il prosaico, perfino lo scurrile, senza paura di dar luogo appunto a impasti in apparenza inconciliabili. Si potrebbe anche dire che la musa del Nostro è fondamentalmente “bastarda”, come del resto era indicato dal titolo forse più significativo dei molti espressi dalla sua instancabile officina, quando, in un’opera del ’98, ha denominato la sua Modena originaria “Piccola città bastardo posto”. Vale la pena di ricordare che, risalendo per li rami, un modenese patentato come lui può rivendicare tra i suoi antenati il grande Tassoni. Confesso che nell’andare a leggerlo, ero partito prevenuto, ritenendo che la sua “Secchia rapita” fosse cosa modesta, intrisa di folclore, invece vi ho trovato proprio una delle manifestazioni più efficaci di ibridazione continua, di fusione tra l’alto e il basso. Si pensi alle dee dell’Olimpo che, convocate dal padre Giove, tardano ad andare al concistoro perché impegnate a fare il bucato. Naturalmente, oltre al remoto antenato Tassoni, Barbolini raccoglie pure l’eredità ben più vicina di Delfini, senza contare che non gli manca neppure l’essere andato a navigare in più alte acque, con la trasferta che ne ha fatto un milanese, e dunque si può mettere in lista anche un riferimento a Gadda. Oppure, se si vuole, ritornando quasi ai conflitti tra Modena e Bologna degni della “Secchia rapita”, si potrebbe impostare un confronto tra questo campione della città della Ghirlandina e il nume bolognese della comicità e della parodia, Stefano Benni. Con la differenza che forse l’esponente bolognese ha la tendenza a frequentare di più certi esiti concettosi, iperbolici, futuribili, mentre il contendente modenese si attiene a un cabotaggio in definitiva più tranquillo, con oscillazioni dagli estremi più ravvicinati.
Nel taglio del flusso indifferenziato che sgorga dalla sua macina, l’autore, come indica il titolo, ha voluto privilegiare la presenza del vampiro Dracula, ma beninteso nulla di terrifico, si dà il caso che lo abbiano invitato a tenere una dotta conferenza proprio sull’oscuro nobile della Transilvania, nella sua terra, ma si dà il caso che gli era capitato di incontrarlo davvero, il tristo signore, nella sua incarnazione cinematografica più nota, cioè nella persona dell’attore Christopher Lee, di remote origini modenesi, e dunque la “bastarda città” aveva potuto accoglierlo con tutti i dovuti onori. Ne viene anche l’ameno contrasto tra il figurino del personaggio sanguinario e invece il suo rappresentante, che ai concittadini Modenesi si era presentato in abiti più che decorosi. Roba, insomma, degna di una conferenza da Rotary Club, come l’autore non manca di sottolineare ironicamente.
La striscia policroma ed eterogenea continua a uscir fuori, da un “blocco compatto di passato presente futuro”, e così si affacciano tante apparizioni, tra l’effimero, il casuale, il dotto, subito pronto a inabissarsi nel volgare, dalle stelle della più squisita formazione culturale alle stalle di quanto si addice appunto a un mondo bastardo, dialettale. Si potrebbe anche chiamare in causa la categoria, oggi così diffusa, dell’autonarrazione, dell’autobiografismo, e in effetti Barbolini vi si concede senza troppe remore o pudori. E proprio nel nome di un’esperienza diretta, vissuta “di persona” come più non si potrebbe, dalla macchinetta salta fuori il grumo più forte, più consistente, relativo a una crisi cardiaca subita dal narratore, e ricostruita in tutte le sue fasi, con estrema concretezza, efficacia, urgenza di sensazioni, impressioni. Tanto che forse sarebbe stato meglio isolare questa vasta zona di vissuto, darle un rilievo autonomo. Ma capisco che sarebbe stata anche una infrazione a un metodo generale di lavoro, quello di una macina decisa a procedere per la sua strada, a metter fuori vermi esili, filiformi, o invece grumi poderosi, di grande stazza.
Roberto Barbolini, Vampiri conosciuti di persona, La nave di Teseo, pp. 237, euro 15.