Nella Capitale, la Fondazione Roma, presieduta da F. M. E. Emmanuele, svolge una efficace concorrenza ai musei deputati gestiti tra Stato e Comune, avvalendosi di due sedi, Palazzo Cipolla e Palazzo Sciarra. Nella prima delle due ora si può vedere una mostra molto completa di un grande artista francese che non ha esitato ad arrotondare in Arman un nome e cognome di origine ispanica, Armand Fernandez (1928-2005), divenendo uno dei principali protagonisti del Nouveau Réalisme fondato nel 1960 da Pierre Restany, un movimento che forse è stato il canto del cigno, per la Francia, nell’esprimere una vocazione maggioritaria in Europa, detenuta fin dai tempi lontani delle avanguardie storiche, con relativo potere di attrazione su tanti esuli da vari Paesi del nostro continente. Così, in quel gruppo, accanto ai francesi autentici come lo stesso Arman, e César e altri, compariva il nostro Rotella assieme al bulgaro Christo e al rumeno Daniel Spoerri. Restany a sua volta è stato l’ultimo grande teorico e trascinatore dell’arte di ricerca, raccogliendo il testimone da Michel Tapié, il numero uno per tutti gli anni Cinquanta nel fissare i connotati dell’Informale, ovvero, detto a suo modo, dell’Art autre. Il più giovane Pierre gli aveva sottratto qualche briciola di quel banchetto, con l’Abstraction lyrique, e soprattutto con un colosso quale Jean Fautrier, portando subito a impiantare questi preziosi prodotti assieme nella Gallerista milanese Apollinaire, di Guido Le Noci. Ma al giro di boa dei Sessanta entrambi avevano condiviso la percezione della grande svolta, basta nutrirsi di rovine, risalire agli albori quasi cavernicoli dell’umanità, il ciclo dell’industrialismo era ripartito, e da quel momento la condizione umana doveva misurarsi su una simile nuova realtà, promuovendo una sfida enorme tra noi e gli organismi meccanici riemersi in proporzioni dilatate. Prendere atto del ritorno in forze della produzione industriale voleva dire accettare il carattere che essa si portava dietro, il numero, la quantità, sottoposti a un incremento, a una moltiplicazione senza pari. Questo infatti il tratto distintivo tra prime e seconde avanguardie, io stesso, nel mio piccolo, e come membro e testimone della neoavanguardia letteraria italiana, non ho fatto che ripeterlo, noi eravamo la generazione di Nettuno, per dirla con Eco, pronti cioè a quantificare, a estendere, a normalizzare le intuizioni dei padri storici, che invece si erano impegnati in una fatica erculea, con fragore officinale, come si conveniva ai figli di Vulcano, sempre secondo le fortunate etichette di Eco. Subito sulla soglia della mostra romana Arman proclama questo tratto distintivo, dichiarandosi appunto affezionato seguace del numero, della quantità, così come il collega Yves Klein lo era del vuoto spinto. Purtroppo, adottando una delle famigerate pratiche introdotte dai curators, la mostra in Palazzo Cipolla ha un unico inconveniente, di esporre le opere rivoltate come un calzino, dalle ultime, composte da un Arman sempre alacre e superattivo, alle prime, concepite al momento stesso della nascita del Nouveau Réalisme. Questa medesima mania di rovesciare i dati si applica anche al curriculum dell’artista preso in esame, con l’unica eccezione della biografia, ma presto anche qui partiremo dall’anno della morte risalendo fino ai giorni dei suoi primi vagiti.
Tutta l’arte di Arman si riassume appunto in due dati di fondo: il rispetto dell’oggetto fornito dalla produzione industriale, e l’offrirlo in massicce dosi quantitative, presentate, per di più, forse questo è un terzo connotato, in un pittoresco disordine, in una continua sfida al caso. In partenza questi canoni Arman li applica ai timbri, delle poste, di uffici burocratici, forse nel prudente intento di rimanere ancora abbarbicato alla superficie, ma ben presto egli capisce che rispettare la natura dell’oggetto artificiale voleva dire anche accettarne il carattere voluminoso, tridimensionale. Non c’era bisogno di cercare lontano, era sufficiente rivolgersi alle “poubelles”, ai bidoni del pattume, dove si gettavano allora, come anche oggi, tutti i prodotti “usati”, tappi di bottiglie, detriti di ogni specie e natura, duri o soffici che siano. E si aggiunga proprio il carattere del disordine, del “come viene viene”, quel medesimo carattere di accettazione di un caos seppur controllato che l’amico César otteneva attraverso le compressioni fatte subire alle carcasse delle auto pronte per la demolizione. In definitiva l’intera marcia progressiva di Arman è consistita nel rivolgersi a prodotti industriali, a merci sempre più voluminose, fossero strumenti musicali, o sedie di qualche salotto a buon mercato, o ferri da stiro, o caffettiere, e così via. Qualche volta questi oggetti tipici del nostro panorama industriale ci vengono serviti da lui per intero, confidando nel puro e semplice accumulo per dare loro una nuova visibilità. Altre volte Arman si comporta come un cuoco che squarta le sue vittime, le riduce a pezzi, poi magari tenta di ricomporle, ma con voluta goffaggine, per cui i vari frammenti si inseriscono gli uni negli altri attraverso tagli, spaccature vertiginose. Naturalmente ci sono tante consonanze, in ciascuno di questi gesti. Quando l’artista se la prende con gli strumenti musicali, si pensa al grande John Cage, e al suo allievo nostrano, Giuseppe Chiari, anche loro solleciti nel frantumare i pianoforti. Qualche frutto di queste ecatombe sistematiche lo si può cogliere nell’inglese Damien Hirst, nell’indiano Subodh Gupta, ovvero Arman indica vie redditizie per affrontare l’universo utensilistico dei nostri giorni e trarne ogni frutto possibile. Noto con qualche rammarico che i curatori di questa selezione, certamente chiamati a scegliere entro un’opera smisurata, hanno trascurato qualcuna di queste ingegnose “panachés”, quelle in cui Arman ha osato affrontare statue convenzionali rubate ai gessi delle accademie, ma subito inframmezzate, tranciate, farcite con materiali assunti dall’orrido nostro repertorio quotidiano. Con questi arditi spaventapasseri io avevo organizzato una sfilata trionfale quando, nel 2008, mi vanto di aver costretto una Milano quasi immemore a ricordare quanto doveva a Pierre Restany, e precisamente di averla resa la capitale in seconda, o addirittura in primo grado, della nascita del Nouveau Réalisme. E questo omaggio, tenutosi al Padiglione di Arte Contemporanea, non poteva essere compiuto se non nel nome di una capacità non cessata, da parte di Arman e compagni, di stupire ancora, di cogliere nel segno, di accompagnarci lungo la difficile navigazione nei nostri anni.
Arman, Roma, Palazzo Cipolla, a cura di Germano Celant e Chiara Spongaro, fino al 23 luglio. Cat. Silvana Editoriale.