La Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dedica una giusta mostra a Antonietta Raphaël (1895-1975). Nata a Kaunas, in Lituania, se ne era andata dapprima a Parigi, poi in Italis, comparendo a fianco di Mario Mafai, a Roma, che aveva sposato avendone tre figlie. Col marito, aveva costituito il famoso trio, di cui il più celebre partner era senza dubbio Scipione. I tre formavano la cosiddetta Scuola di Via Cavour, da una delle loro residenze, ed entravano a far parte di quel nostro episodio tipico degli anni ’30 di reazione all’archeologismo incartapecorito del Novecento e fenomeni affini che aveva regnato presso di noi nel decennio precedente,. Ma mentre Mafai e Scipione reagivano con una specie di espressionismo o di barocchetto molto domestico, Antonietta lasciava chiaramente intravedere le sue ben diverse radici, da un Nord favoloso e leggendario che sapeva esprimersi in una mitologia affidata a una serie di mascheroni ghignanti, un mondo del tutto estraneo ai climi più moderati di casa nostra, e dello stesso Scipione, che pure era quello che procedeva di più a briglie sciolte immettendo molta immaginazione nelle sue altrimenti troppo domestiche nature morte. A un certo punto Mafai dovette sentirsi tallonato dal genio incondito e smisurato della moglie, fino a compiere quello che ai nostri giorni sarebbe stato considerato un gesto indebito e deplorevole, di obbligare la moglie ad abbandonare la pittura, in cui rischiava di apparire superiore al maschio di casa, per imbracciare la scultura, nel che Antonietta non si sentì per nulla spiazzata, anzi, continuo a modellare con le materie plastiche i suoi mascheroni, le sue cariatidi slabbrate, aperte a conca, ad abbracciare tanto spazio, In sostanza, anche in quell’arte che non era proprio la sua prima scelta, seppe manifestare il fondo leggendario e stupefacente che si portava dietro dalla nascita, risultando anche su questo fronte ben lontana dai nostri migliori scultori del suo tempo, che si portavano dietro un senso delle misure, tenendosi non lontani dal mantenimento di un cauto equilibrio, anche se poi per la forza dei tempi alcuni di loro scivolarono verso il geometrismo astratto. Una soluzione, questa, che rimase sempre indigesta alla nostra artista, pur sempre bisognosa di fare grande e di produrre stupefazione, aggressione. Insomma, cacciata via dalla pittura per un sopruso tipicamente maschilista, anche se in quell’epoca non se ne ebbe una reazione adeguata, seppe adattarsi molto bene alla nuova modalità espressiva che le era stata imposta. Da notare che prima di lei era toccata un’uguale ventura a una sua collega pur sempre del Nord, a Marianne von Verefkin, nata in Russia quindici anni prima, poi anche lei venuta in Occidente, per la precisione a Monaco, dove aveva incontrato un equivalente di Mafai, Alexey von Jawlensky, anche lui inquietato da quella pittrice più inventiva che gli marciava al fianco, dimostrandosi in possesso di un estro maggiore, e obbligandola pertanto al silenzio, fino a quando lui rimase in vita. In quel caso non ci fu però un passaggio a un altro genere d’arte, la Werefikin riuscì a continuare la sua ben tramata serie di immagini sospese tra leggende ataviche e soluzioni quasi di gusto infantile.
Antonietta Raphaël, Attraverso lo specchio, a cura di G. Colò e A- Troncone. Roma, GNAM.