Compio ben volentieri una visita virtuale a Monaco di Baviera, Museo Brandhorst, che dedica un’ampia mostra al pittore statunitense Alex Katz, ormai più che novantenne (1927), cui si deve in gran parte l’attuale rilancio dell’atto del dipingere, se gli si associa un altro artista uscito dal clima anglosassone, più giovane di lui, David Hockney, di cui in precedenza ho già detto le lodi su queste pagine. Per rilanciare la Vecchia Signora Pittura, nel quadro della nostra cultura occidentale, i due hanno capito che bisognava sbarazzarsi del cadavere malaticcio, sudaticcio, graveolente della terza dimensione, riallacciandosi all’atto di liberazione da quel “caput mortuum” già compiuto, a suo tempo, da Gauguin e dagli altri campioni dell’Art Nouveau. A quei tempi essi avevano lanciato il motto francofono dell’”á plat”, ora, in stagione di inevitabile anglofonia, dovremo semmai parlare di “flatness”, magari qualificandola anche con un accrescitivo, il “super” che le annette un suo cultore autorizzato come il giapponese Murakami. Infatti sembra obbligatorio ricordare che a quella decisione di farla finita con la terza dimensione Gauguin e compagni furono incitati proprio dalla frequentazione dei grandi xilografi nipponici, Utamaro e soci, di cui accettavano anche le sagomature eleganti e preziose, così adatte al clima fin-de-siècle. Ma a questo punto scattano le differenze rispetto a loro del duo Katz-Hockney, che non sarebbero attuali se, assieme alla “flatness”, volessero anche riproporre quelle inattuali eleganze e meraviglie. Al contrario essi sanno bene che al giorno d’oggi bisogna accettare subito in partenza una adesione a un clima collettivo, di massa, diciamo pure “popular”, il che ci porta alla Pop Art, di cui del resto Hockney è stato davvero un membro riconosciuto, ma nella variante inglese, restia ad avventurarsi in quelle fuoriuscite spaziali, in quei riecheggiamenti del ready-made duchampiano cui in genere non si sono certo sottratti i cugini d’oltre Atlantico, trovando anche in ciò un avallo circa il loro grado di più stringente novità. Ma in proposito proprio Katz preciserebbe che, mentre accoglie di buon grado un legame col “popular”, sarebbe reticente a estenderlo agli esiti più clamorosi, ovvero di nuovo tridimensionali, della Pop Art nei suoi aspetti più noti, con la relativa sottomissione ai prodotti di massa in tutta la loro greve e voluminosa immagine ufficiale, per cui anche quando taluni tra i Pop praticano in larga misura la “flatness”, si pensi a Warhol, a Lichtenstein, si lasciano però rimorchiare proprio dai volti ufficiali dei mass media, foto, fumetti, icone pubblicitarie, intervenendo solo di contropiede nei loro confronti. Katz invece rivendicherebbe il suo andare direttamente alla fonte dei mass media, ma senza sentirsene prigioniero, anzi, adattandone le soluzioni a usi personalizzati. Come ogni bravo turista o cittadino del nostro mondo che va in giro a scattare foto dei familiari, o di compagni di viaggio, o immagini-ricordo di bei siti incontrati da turista, il tutto nei modi più liberi e disinvolti, obbedendo solo al requisito primario di fare “piatto”. Con due inevitabili corollari, che ci vuole grande perizia nello sforbiciare le sagome, e nel campire gli spazi, dentro e fuori le icone, con colori schietti, a sfida di quelli che compaiono nei cartoons o nelle sigle pubblicitarie. Ecco dunque questa varia popolazione di profili e contorni, ottenuti con segno leggero, sciolto, scattante, dove la parte spettante all’essere umano viene intersecata con qualche tralcio vegetale, e anche il paesaggio, se si mostra da solo, viene ridotto pur esso a sagome stilizzate, come di fiori o fronde schiacciati tra le pagine di un pesante volume, messi ad essiccare, da un erborista che però riesce nel miracolo di conservarne intatti i colori, anzi, di potenziarli, come iniettandovi dei conservanti o delle essenze capaci di renderli ancor più brillanti. Queste modalità di procedere costituiscono ormai una vera e propria scuola con molti seguaci. Ormai un ventennio fa, quando organizzavo “Officina America”, ne incontrai una brillante comprimaria a Los Angeles, Marina Kappos, di cui però ho perso le tracce, mentre più di recente ho potuto stendere qualche riga per un artista di origine italiana, Mario Sughi, che però firma Nerosunero, figlio d’arte, in quanto il padre Alberto era uno dei componenti di una scuola romagnola gravata proprio dal trascinarsi dietro le spoglie di volumi sfatti eppure resistenti, mentre il figlio procede libero e agile a fare lo slalom tra tutte le icone della nostra attuale scena mondana.
Alex Katz, Monaco, Museo Brandhorst, fino al 22 aprile.