Arte

Al San Domenico di Forlì mostra alquanto inutile

Qualche domenica fa, parlando della mostra ora visibile al ferrarese Palazzo dei Diamanti, mi chiedevo se era da relegare tra le esposizioni inutili, da condannare al braccio secolare del libello steso da Montanari e Trione, ma infine la salvavo per l’intenso amore che porto nei confronti di Gaetano Previati, ospite abbondante a quel banchetto, e per il fondamentale vincolo che lo lega a Boccioni, anche lui ben presente in quell’occasione. Non ho invece dubbi nel condannare “L’eterno e il tempo”, ora in atto ai Musei di San Domenico di Forlì. Peccato, perché quel Comune ha fatto senza dubbio uno sforzo ingente e lodevole nel mettere a disposizione una serie di sale e spazi, questa volta poi ha il merito di far partire la mostra dalla maestosa navata della ex.chiesa che dà il nome al complesso. Anche se poi le opere risultano, qui, e negli altri spazi, alquanto raccogliticce, mosse più che altro dall’obbligo di “fare qualcosa”, costi quel che costi, anche senza la presenza di motivi cogenti. Il San Domenico aveva ospitato mostre giuste e corrette per segnalare artisti della tradizione locale, penso al Palmezzano, a Melozzo da Forlì. Era già apparso in affanno nella pretesa di celebrare un grande come Piero della Francesca, rientrando in limiti più ragionevoli con puntate dedicate a un passato recente, come il Liberty e l’Art Déco, peccato che soprattutto nel primo caso, si fosse messa nelle mani di non-specialisti, assunti come tutto-fare. Ora i nomi dei curatori sono di alto bordo, a cominciare da Antonio Paolucci, ma è mancato un sicuro filo conduttore, come risulta già dal titolo dell’intera manifestazione, dove si scomoda “L’eterno”, soggetto opposto al “Tempo”, che compare subito dopo, sempre nel titolo, e che è il vero amministratore delle vicende stilistiche, qui però disperse in mille rivoli, anche se i due terminali dichiarati sempre nell’etichetta del prodotto, Michelangelo e Caravaggio, ci sono davvero. Alcune sculture del Buonarroti sorgono nell’immensa navata, ma circondate da dipinti non sempre all’altezza. Di Raffaello c’è solo un arazzo, dei grandi protagonisti del Manierismo come il Pontormo e il Rosso solo dipinti minori, spalleggiati dai mediocri Daniele da Volterra e, dispiace dirlo, Giorgio Vasari, che col pennello, inutile insisterci, non ha mai eguagliato l’acutezza del critico, dello storico dell’arte (del fenomenologo degli stili, preferisco dire io). Si sale poi al primo piano, dove senza dubbio qualche perla c’è, come addirittura lo straordinario Tiziano che dedica un famoso ritratto a Paolo III e ai suoi congiunti. Ma avendo accanto solo la triste, accademica sfilata dei Manieristi di seconda o terza ondata, che aduggiavano la Roma di fine Cinquecento, i vari Muziano, Nebbia, Pomarancio, i fratelli Zuccari, roba da lasciare a Federico Zeri che solo su di essi ha esercitato le sue dubbie doti di storico dell’arte. Ma è anche vero che ci sono le eccezioni, i colpi d’ala improvvisi, come addirittura un gioiello del Greco, un manierista autentica come Lello Orsi, infine l’ampio, morbido Barocci, in quel suo ruolo di ponte tra i due secoli. Un difetto del San Domenico è di non riuscire ad assicurare un percorso razionale ai visitatori, infatti dopo le ampie sale al primo piano si è fatti deviare lungo un corridoio che, rubando un termine in uso al nostro Parlamento, si vorrebbe definire “dei passi perduti”. Lo sanno bene i curatori, che infatti ci mettono dipinti e disegni decisamente minori, di quelli che servono a fare il pieno a a dare una opportuna quantità di opere a chi ha pagato il biglietto, sottoponendolo però a marce forzate, e a salite. infatti dopo quella lunga e stretta galleria ne segue un’altra a un livello innalzato, anch’essa in genere costellata di cose minori, dove beninteso, anche in questo caso, si trovano ghiotti reperti, per esempio i ritratti e le nature morte di un bolognese, Bartolomeo Passerotti, rappresentante di quella cultura petroniana che sarebbe da indagare da vicino, prima dell’arrivo dei Carracci. E c’è perfino, davvero, un Caravaggio splendido, dalla collezione di Roberto Longhi, il “Ragazzo morso dal ramarro”. Poi si plana in un’ultima sala, che si sarebbe potuto raggiungere in via diretta, senza sottostare a quegli obbligatori giri depistanti che ricordano un po’ le digressioni consumistiche imposte dai motel. Questo è davvero un “sancta sanctorum”, che però viene in ritardo, e presenta capolavori già visti mille volte, come talune gemme di Ludovico e Annibale, e due Caravaggio da favola, “Il sacrificio di Isacco” e “La Madonna dei Pellegrini”, e c’è perfino una straordinaria, estesa, diramata “Adorazione dei Magi” di Rubens. A lato, in una specie di cripta separata, sorge la statua che è poi la ninfa pronuba, protettrice, giustificatrice di queste varie esposizioni, una “Ebe”, capolavoro di Antonio Canova.
L’eterno e il tempo tra Michelangelo e Caravaggio, a cura di Antonio Paolucci e molti altri. Forlì, Musei di San Domenico, fino al 17 giugno. Cat. Silvana editrice.

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