A Venezia il comunale Palazzo Ducale e le statali Gallerie dell’Accademia si sono consociati per prepararsi a celebrare assieme i cinque secoli dalla nascita di Jacopo Robusti, il Tintoretto (1519-1594). Compito difficile, dato che questo artista appartiene alla serie dei grandi che si sono espressi non tanto con opere da cavalletto quanto con vaste tele murali o affreschi, i secondi due disperdendo i loro capolavori in tante località dell’Occidente. Nel caso del Tintoretto, la città della Laguna ne ospita la quasi totalità, per cui voglio sperare che i visitatori, oltre a recarsi nelle due mostre in oggetto, non rinuncino a portarsi nella vicina Scuola di San Rocco, le cui pareti ospitano l’enorme contributo che in tre decenni di forsennato lavoro il Tintoretto ha affidato a quelle pareti, E tanti altri ancora sono i numerosi dipinti da lui lasciati nelle chiese della città che non hanno voluto o potuto privarsene per far loro raggiungere le due esposizioni. Queste si dividono salomonicamente il compito, le Gallerie insistendo sul primo decennio di attività del pittore, il Palazzo Ducale offrendo un’antologia di quanto da lui fatto in seguito. Personalmente ho già dato il mio contributo al genio del Tintoretto dedicandogli un corso, quando ero docente al DAMS di Bologna, con dispensa poi confluita nel volume edito da Feltrinelli “Maniera moderna e Manierismo” (2004), di cui invano si cercherebbe traccia nella pur enorme bibliografia che accompagna entrambi i cataloghi, ma si sa che io sono il “critico inesistente” (sull’aria del calviniano “Cavaliere inesistente”). In particolare, ho scritto pagine di cui ancora mi compiaccio proprio sul “Miracolo dello schiavo”, il dipinto che, presente nelle Gallerie dell’Accademia, e nella mostra relativa, segna lo spartiacque tra gioventù e maturità dall’artista. A questo proposito devo causare una delusione alla pur diligente commentatrice in catalogo Roberta Battaglia che, a p. 91, si ritiene la prima a notare che in quel dipinto fondamentale il Robusti “cita” un particolare dell’affresco di Raffaello, al centro della seconda delle Stanze vaticane, dedicato alla “Cacciata di Eliodoro dal tempio”, ghiotto episodio pubblico per cui una donna del popolo col figlioletto in braccio si gira per meglio ammirare lo spettacolo, e c’è pure un giovanotto che si arrampica su una colonna, tocchi di deliziosa quotidianità che appartengono all’universo del Sanzio, mentre il sublime Michelangelo li avrebbe sdegnati, considerandoli indegni del suo alto profilo. Infatti, tutti sono pronti ad ammettere che il giovane Tintoretto è imbevuto di ricordi dai due grandi protagonisti della scena romana, assai superiori ai Vasari e Salvini che in genere vengono considerati come gli introduttori delle novità manieriste nell’ambiente, ancora belliniano-giorgionesco, di Venezia, fino a far girare la testa anche al pacato Tiziano, pronto però a riprendere la sua strada maestra. Il Tintoretto invece, fin da quella prima ora, fu pronto ad accogliere quella lezione, in modo così fedele che si riaffaccia l’ipotesi di un suo viaggio proprio a Roma, sulla metà del secolo. Ma alla fine si riconosce che non ce n’era bisogno, a nutrirsi del midollo del leone di quei due campioni bastavano le stampe, le riproduzioni, che affluivano copiose. Del resto, correndo in avanti, fino a una presenza ugualmente profetica e piena di energia come l’inglese William Blake, balzato in campo più di due secoli dopo, pure lui si nutrì dell’insegnamento congiunto Buonarroti-Sanzio, ma senza fare il viaggio a Roma, per il quale non aveva soldi, ma neppure la sollecitazione a compierlo davvero, gli bastava “immaginarlo” nella mente, e qualcosa del genere vale anche per il Tintoretto. Ma visto che ci siamo, proprio questo suo dipinto “matriciale” ci invita a guardare più in direzione di Raffaello che di Michelangelo. Il catalogo della mostra all’Accademia ha il pregio di mettere a confronto, col “Miracolo dello schiavo”, una piena visione del “Giudizio universale”, da cui emerge la distinzione della scena, pur gremita, ma scissa in tanti episodi autonomi, come dire che il Buonarroti rimaneva essenzialmente scultore, pronto a scolpire anche in pittura come dei gruppi da ammirare in soluzione distaccata. Invece il Tintoretto, pittore fino in fondo, preferiva avviluppare, attorcere le sue figure, invischiarle tra loro, pur impregnandole di tensione muscolare, di slanci e cariche energetiche degni di Michelangelo. E certamente il santo in picchiata dall’alto è “citazione” dal Buonarroti, che però non lo avrebbe mai fatto planare su un parterre di personaggi predisposti ad accogliere quella caduta rovinosa, e perfino, se si vuole, a cercare di porle un rimedio, apprestando come una coperta accogliente, al modo di come potrebbe fare una squadra di provvidi pompieri. E per rendere più soffice e sicuro quell’atterraggio, ci pensano i cappelli di una folla effigiata secondo i costumi arabi, cioè con tanti copricapi a turbante, simili a capocchie di viti, provvidenziali proprio per fissare quel grembo, per consentirgli di reggere il colpo.
Il giovane Tintoretto, a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani, Venezia, Gallerie dell’Accademia, fino al 6 gennaio, cat. Marsilio; Tintoretto 1519-1594, a cura di Robert Echols e Frederik Ilchman, Venezia, Palazzo Ducale, fino al 6 gennaio. Cat. Marsilio.