Fabio Cavallucci, nominato alla direzione del Pecci di Prato da più di un anno, non riesce a partire con un’attività sostanziosa dato che il Museo è bloccato da tempo in attesa che partano i lavori di ampliamento che potrebbero farne il luogo espositivo più ampio d’Italia. Intanto ha deciso di non starsene con le mani in mano e ha programmato un enorme Forum sull’arte contemporanea tenutosi a Prato nei giorni scorsi (25, 26 e 27 settembre) che ha offerto un’ampia rilevazione sui problemi e i protagonisti attuali del sistema arte, almeno nel nostro Paese. Ben 42 sono stati i tavoli di dibattito allestiti, corrispondenti a una elencazione a tappeto di tutte le questioni che ci assillano, e ad animarli è stata chiamata una vasta schiera di operatori, soprattutto giovani, anche se intervallati con qualche “vecchio”, in una specie di leva, di chiamata in causa delle generazioni ora in campo. Tanta completezza, impeccabile ed esauriente sul fronte delle proposte, ha necessariamente patito sul fronte dei risultati, infatti un così alto numero di temi e di interventi ha portato a una frantumazione dei raduni, poco tempo concesso a ciascuno di essi, assoluta impossibilità di concludere, anche se devo confessare una mia larga inadempienza, ho partecipato solo alla prima giornata, e sono stato assente alle riunioni conclusive in cui i vari “chair” erano tenuti a tentare un riassunto dei risultati conseguiti. Diciamo che si è arato, e forse anche seminato, ma come avviene in agricoltura non c’è stato tempo per avere dei frutti, oppure è come se una squadra di cacciatori avesse sparato in aria sollevando i piumati, ma forse senza farli cadere al suolo e metterli nel carniere.
O forse no, io personalmente avevo scelto di essere collocato al tavolo dedicato alla “Formazione di critici e curatori” il cui risultato è stato fin troppo esplicito e concorde, a mio danno. Vi sono intervenuto difendendo il ruolo che ho svolto lungo tanti decenni, quello di essere stato nel tempo stesso storico dell’arte, bisognoso che il mio discorso avesse radici, ma pronto a valermene in una strenua militanza, con la necessità conseguente di farmi curatore di mostre per andare a sperimentare le mie varie ipotesi e mettere alla prova i nuovi valori avvistati. Insomma, storico, critico e curatore nello stesso tempo, con l’impossibilità di distinguere tra loro i diversi momenti e aspetti. Forse se accanto a me ci fosse stata Ester Coen, prevista ma assente, avrei avuto una compagna di viaggio, invece mi sono trovato da solo, come un cervo solitario aggredito da una muta di cani che quasi mi hanno sbranato, o messo in fuga come “vecio” fuori tempo. Poco male se ciò dovesse riguardare solo il mio singolo destino, ma purtroppo è emerso il profilo concorde dei tanti giovani (sei per la precisione) che sono stati di parere unanime nel difendere la professione del curator, come se oggi, e purtroppo domani, esistesse solo questa. Non conta chiedersi “che arte fa”, o farà, andare alla ricerca di nuovi talenti, scommettere su di loro, metterli alla prova. Fanno aggio i vari problemi di taglio sociologico o merceologico, fondamentale è dimostrarsi abili nel “fund raising”, nei vari problemi di allestimento, di rapporto col pubblico, problemi rispetto ai quali gli idoli, le stelle polari diventano gli Ezwenor o, per venire a casa nostra, i Gioni e Christov Bagarkiev. Quanto alla “formazione”, preposta al titolo di questa sezione, sì, qualche consenso alla mia insistenza nel ridicolizzare i vari master che pretendono di insegnare il mestiere, appunto del curator in soli sei mesi, sono venuti, ma nessuno ha difeso i corsi universitari, le lauree di primo e secondo livello, le scuole di specializzazione. I giovani ardono dalla voglia di essere messi subito alla prova, nel pratico più che nello storico-teorico. Io in genere sono un ottimista sul futuro dell’arte, ma non se affidato a queste falangi di aspiranti burocrati, in famelica attesa di chiamata e assunzione, non si sa bene per fare che cosa.
Il che mi consente di toccare anche un altro tema scottante, fatto oggetto di uno di questi match, perché l’arte italiana è così poco presente nel mondo. Ma appunto perché i nostri aspiranti curator, o già chiamati a qualche importante manifestazione, non cercano di puntare su nostri valori, di difenderli, di imporli. I modelli vengono dai grandi curator delle rassegne internazionali, i quali non compiono nessuna fatica per andare a vedere. Si stabilise una lista internazionale, e da quella si attinge, per paura di sbagliare se si tenta di immettervi nomi nuovi. Domina sovrano, insomma, l’aureo principio del ricorso all’”usato sicuro”. Meglio fare come il curatore ottimo massimo dei nostri giorni, Ezwenor appunto, che dovendo pur inserire alla Biennale di Venezia qualche presenza italiana, ha giocato la carta dei “soliti noti”, esponendo due artiste già varie altre volte presenti, la Barba e la Bonvicini. Se proprio si vuole documentare l’esistenza di un serbatoio italiano, c’è pur sempre il Padiglione Italia, ma funzionante come un limbo, per non dire un inferno, da cui ogni curatore che si rispetti si tiene prudentemente lontano.