Una mostra di Luciano Minguzzi alla Rocca di Cento, che mi sembra quasi consistere in un trasferimento in blocco delle opere dell’artista bolognese dalla Fondazione di cui dispone a Milano, mi induce a dedicargli qualche parola, cosa che colpevolmente non ho fatto in passato, nonostante alcune occasioni d’incontro con lui, e soprattutto col figlio, cui si deve la creazione della Fondazione. E anche la persona che più se ne è occupata, Alessandra Zanchi, mi è stata vicina in qualità di laureanda, con specializzazione nel capofila del nostro Neoclassicismo in pittura, Andrea Appiani, cui, sotto la mia guida, ha dedicato una monografia molto ben fatta. Per parlare di Minguzzi (1911-2004), bisogna ricordare che anche a Bologna, dove si è formato, è esistito un espressionismo anni Trenta, sul tipo di quanto avvenuto nelle nostre tre città maggiori, Roma, Milano, Torino, già pronto a manifestare inquietudini e tumulti d’animo, ma estenuando il figurativo, senza alcun sospetto dei movimenti più avanzati esistenti al di là delle Alpi. Solo nel dopoguerra su quelle ansie andarono a innestarsi gli schemi più arditi del postcubismo. Una situazione, questa, di vigilia alquanto impotente, che oltre a Minguzzi è stata pure partecipata da Pompilio Mandelli, Ilario Rossi e altri ancora, riluttanti a porsi agli ordini del plasticismo robusto ma troppo prudente di un Morandi. Minguzzi, detto in sintesi, si può considerare uno dei migliori campioni delle due virtù principali che devono arridere a un valido scultore: la malleabilità, cioè la capacità di distendere le forme sul piano, pur lasciando a loro un buon margine di aggetto; e la duttilità, cioè la capacita opposta di distendere le masse in filamenti sottili, avvolgenti. Il primo aspetto ha consentito a Minguzzi di diventare il principale modellatore per porte di chiese di grande livello, come il Duomo di Milano, San Pietro a Roma, S. Fermo Maggiore a Verona. Ma certo la dote che lo ha distinto meglio è stata l’altra possibilità, quella di estendere, estenuare, prolungare in strutture filiformi, un pregio che ha avuto in comune con altri nostri scultori emersi nel dopoguerra, come Mirko, Consagra, Franchina, e che è servito a distinguerlo profondamente dagli scultori della generazione precedente, i quali, seguendo le orme di Arturo Martini, e con Marino in testa, preferivano ammassare, concentrare le forme, soprattutto se si trattava di teste e di corpi umani. Questo moto centripeto sarà sempre avverso al nostro artista, che per esempio, se si darà a offrici figure umane a grandezza naturale, aprirà in loro un solco lungo la colonna vertebrale, come fossero animali da macello squartati e appesi. Questa possibilità morfologica lo ha reso disponibile a farsi epico cantore dei campi di sterminio, una corda tematica cui evidentemente erano esclusi i suoi predecessori, chiamati invece a fornire blocchi compatti. Ma in definitiva questa possibilità di “aprire”, di lacerare le presenze umane è apparsa a Minguzzi insufficiente, da qui la nascita del suo bestiario, dei galli in primo luogo, dato che le loro piume, le teste aguzze, gli artigli gli offrivano un soggetto eccellente proprio per andare ad “artigliare” lo spazio, per aggredirlo con sventagliate, dove l’estenuazione malleabile del poco di carne sopravvivente veniva smossa, inquietata dal suo protendersi a occupare spazio, ma in forme leggere, poco ingombranti. Forse a Minguzzi si è fatto rimprovero che nell’eseguire una pulsione di questo tipo, pur in perfetta linea con le prestazioni di artisti internazionali emersi anche loro nel dopoguerra, si pensi agli inglesi Chadwick e Armitage, non fosse però deciso come loro a lasciarsi alle spalle il “caput mortuum” del figuratviismo per slanciarsi verso una pratica totale dell’astrazione, questo anche a differenza di colleghi a lui preferiti da un certo gusto “internazionalizzante”, come i già ricordati Mirko e Conssagra. In fondo, Minguzzi non ha mai cessato di portarsi dietro i vividi motivi espressionisti della ormai lontana stagione prebellica, come dire che non ha mai mollato gli ormeggi da un residuo figurativismo. Ma si dovrebbe lodare la sua capacità di prolungarlo, di impiantargli addosso un reticolo di traballanti edicole aeree. Quanto rimane di solida presenza antropomorfa si muta subito nei corpi di acrobati, capaci di reggere gabbie spaziose, di movimentare il vuoto dell’aria con lacci sottili. Quelle sottili superfici di ridotto spessore giungono perfino a prendere il volo, ed ecco così entrare in questo efficace repertorio il motivo degli aquiloni, perfetto matrimonio proprio tra le due facoltà dominanti, la malleabilità di membrane ridotte all’osso, e la duttilità di estenderle, quasi col mattarello con cui si fa la sfoglia. Una virtù, questa, in cui lo ha seguito un collega concittadino, Quinto Ghermandi, che ha trovato soluzioni molto simili nelle foglie dei vegetali o negli ossi sacri del nostro scheletro, con il foro di innesto del femore occhieggiante nel vuoto. Tante sono le felici commistioni che Minguzzi ci ha dato, tra un protagonista umano mai del tutto abbandonato, e il suo reggere un volume di effetti virtuali assai più vistoso e ingombrante, trovato o in alto, in aria, o anche nell’intrico di canneti e cespugli. Rientra in questa felice tipologia perfino la serie delle figure femminili intente a saltare la corda, che potrebbe proprio essere l’immagine riassuntiva dell’intera attività di questo artista, magari con l’aggiunta di un altro motivo assai simile, della donna sdraiata su una chaise longue, perfetto abbinamento tra una residua consistenza plastica, di membra rotondeggianti, e invece tralicci, tubi, spalliere offerti dal mobile di sostegno, perfetto equilibrio tra pieni e vuoti.
Minguzzi. Sculture e disegni. Rocca di Cento, fino al 20 agosto.