I miei pochi lettori saranno rimasti stupiti ieri se, avendolo ricercato, non hanno trovato il solito domenicale. Il fatto è che mi trovavo a Tunisi da dove sono rientrato solo ieri sera, e dunque questo in realtà è un “lunediale”, pezzo unico in cui concentro le mie riflessioni sulla puntata tunisina, che a dire il vero si è svolta nella località turistico-balneare di Hammamet, dove abbiamo stazionato per tre giorni, da giovedì 23 a sabato 25 marzo, per un convegno pieno come un uovo di comunicazioni. Il tutto organizzato soprattutto da Soufiane Chaari, che in definitiva è stato per me l’aspetto più positivo di quell’incontro. Chaari, che parla benissimo l’italiano anche grazie a un soggiorno pluriennale nel nostro Paese, insegna la nostra lingua e letteratura presso l’università di Sfax, città numero due della Tunica, una speciale di Milano, ricca di industrie anche se con non molte attrattive di paesaggio e con i danni di inquinamento provocati dal progresso. Ma confesso che, partigiano come sono della “vita moderna” secondo la perorazione con cui la presenta Baudelaire, che è stato in effetti il tema del mio personale intervento, mi è venuta una grande voglia di visitare quella città, e in tal senso ho invitato Chaari a chiamarmi per un seminario, anche perché attorno a lui egli ha cresciuto un gruppo di allievi anch’essi ottimi “italofoni”.
Però il convegno si è svolto a Hammamet, nell’hotel a cinque stelle Mehari, con un tema forse non del tutto felice, “La lecture des créateurs”, che ha causato una dispersione delle comunicazioni su una infinità di autori e argomenti. Meglio sarebbe stato tentare un censimento delle vie della critica al giorno d’oggi. La prima impressione che ne ho ricavato è di quanto la francofonia domini sovrana in quel Paese, accettata come lingua nazionale accanto all’arabo. In genere siamo convinti che negli ultimi tempi il dominio della cultura francese sia in forte calo, ma certo questo non avviene in Tunisia, e suppongo che sia così anche in Algeria. Ovvero, superati gli anni duri della decolonizzazione, la Francia però ha conservato un pieno dominio culturale sulle ex-colonie. Infatti quell’incontro, diciamolo pure, avrebbe potuto tenersi in qualche università francese, gli studiosi nostri cugini d’oltralpe lo hanno in sostanza dominato, a cominciare da colui che è stato scelto per fare il discorso sia di apertura che di chiusura, Bernard Vouillou, perfettamente dotato di doti di equilibrio e di savoir faire per non scontentare nessuno dei partecipanti, anche col prudente accorgimento di non nominarne nessuno.
L’Italia, invece, esiste poco e male, oppure se ne hanno tracce ma a livello popolare, tra soggetti non acculturati. Purtroppo, come è ben noto, non siamo riusciti a imporre la nostra lingua in nessuna nazione fuori di noi, anche perché, arrivati tardi alle imprese coloniali, abbiamo dovuto accontentarci di aree impervie, non facili da domare. Credo che tanto in Libia quanto in Somalia non ci sia una qualche traccia di presenza ufficiale della nostra lingua. Devo però rendere omaggio al nostro Istituto culturale di Tunisi che si è fatto carico del mio biglietto aereo. Esigua, in modo del tutto rispondente alla situazione di fatto, è risultata la nostra presenza, seppure di buona qualità, capeggiata da Giulio Ferroni, con un perfetto confronto Ariosto-Cervantes, continuata con due semiologi, il torinese Guido Ferrario, anche lui perfetto nel seguire i percorsi incrociati di Calvino, mentre Isabella Pezzini ha reso omaggio alla francofonia, parlando del talento di Roland Barthes, però talento ribelle, mentre altri hanno celebrato un po’ troppo certi personaggi convenzionali come Picon, o troppo eccentrici come Bataille e Blanchot. Ottime cose in lingua italiana sono venute da Sonia Ben Sador, con acuta lettura di Saba, da Amel Boukhris, che ha affrontato un argomento arduo anche presso di noi come quello del super-barocco Basile, e anche Abir Elghoul ha dimostrato buona competenza nel muoversi tra Dante e Botticelli. Ma nel complesso, l’intero convegno avrebbe potuto condursi in qualche città francese senza troppe differenze. Naturalmente è esistito l’orgoglio nazionale di tenere molte relazioni in arabo, affrettandosi però a darne estratti nella lingua considerata ufficiale. Purtroppo, ammettiamolo, è un po’ triste e colpevole che noi europei si sia totalmente digiuni nei confronti di una grande lingua e cultura come quella del vasto mondo arabo, ma il problema si riporrebbe anche per il cinese, il giapponese, e perfino per il portoghese del Brasile. E’ molto comoda l’adozione universale dell’inglese come esperanto, ma molto riduttiva, forse sta in ciò uno degli aspetti più nocivi della cosiddetta globalizzazione, ma come reagirvi, quali misure adottare? Però, come detto sopra, la Francia almeno da quelle parti se la cava molto bene e mantiene intatto un prestigio che invece credevamo ormai logorato.
Come succede nei convegni, noi abbiamo bivaccato per i suoi tre giorni nell’hotel prescelto, comodo, costruito come un enorme patio su cui si affacciano in circolo i quattro piani delle camere, il tutto ornato con tipici arabeschi o soluzioni moresche. Nelle poche sortite, abbiamo constatato di essere circondati da altri pachidermi come l’hotel Mahari, tutte ora in sonno perché non è stagione, ma si ha l’impressione che, come succede proprio in certe nostre stazioni balneari, si sia fatto il passo più lungo della gamba. Infatti molti di questi molossi sembrano aver arrestato la loro edificazione in corso d’opera e ora finestre e balconate danno l’impressione di occhieggiare a vuoto. Il mare lambisce gli hotel, con lunghi viali di palme maestose che in quei giorni erano squassate dal vento. Quando siamo riusciti a saltar fuori dalla residenza coatta, abbiamo potuto constatare che Hammamet è dilagante, credo che per darne un equivalente in estensione dovremmo sommare Rimini e Riccione. I viali, e le relative palme, si estendono a perdite d’occhio, tutti indossando la divisa di un bianco calcinante quasi senza infrazioni. In definitiva l’unica sortita che mi sono concesso è stata di un devoto pellegrinaggio alla tomba di Craxi, con l’aiuto di un taxi che mi ha proprio permesso di valutare l’enormità delle distanze, dal nostro hotel al cimitero di Bettino ci sono più di dieci chilometri, sempre col succedersi di costruzioni candeggianti, che verso il centro di infittiscono e prendono un sapore di maggiore vivibilità. Compare anche un vestigio storico, un lungo percorso di mura berbere che inseriscono l’unica nota dissonante, un colore terroso, quasi fosco.
Quando finalmente si giunge al cimitero dove sono custodite le spoglie del nostro leader, stupisce la semplicità, contro certe voci che, polemiche come al solito contro di lui, accennavano a un trattamento regale che egli si sarebbe concesso da quelle parti. Si tratta invece di nulla più che di un cimitero cristiano, con cancello d’ingresso sempre aperto e anche sgangheralo. Nulla di elitario, ci sono decine di tombe con epigrafi in marmo consunto dagli anni. Mi sarebbe stato praticamente impossibile trovare la tomba di Craxi se non fosse intervenuto il benevolo aiuto di qualche presente. Ma infine lo si raggiunge, e si scopre che esso spicca per totale adesione ai costumi di quella tradizione, è una tomba terragna che si distingue per il biancore quasi abbagliante della mano di calce che lo ricopre, e nulla più, un fiore la centro, un libretto in marmo recante una frase sentenziosa. Forse avei dovuto recarmi alla casa in cui abitava, forse là ci sarebbe stato un albo su cui registrare la mia non cessata devozione alla sua opera e statura, ma di nuovo si sarebbe imposto il fattore distanza, attraverso nuove tappe in quell’universo del sempre uguale, di una ripetizione monotona, non troppo differente.
Il che poi è forse la nota dominante anche di Tunisi, per quel poco che ho visto, quando l’amico Chaari si è sacrificato e alla domenica mattina ci ha condotto, noi pochi italiani, da Hammamet verso la capitale, annunciata per chilometri prima di giungere al centro, con un lento intensificarsi di case e stabili. Poi, di lontano, abbiamo visto come un infinito gregge di bianche pecorelle intento ad arrampicarsi su dolci colli corrosi dalle luci di un mattino via via più peno e splendente. Ma, giudicando vana la pretesa di dedicare una visita anche molto ridotta alla città, l’amico conduttore ci ha deviato a una passeggiata in un quartiere anch’esso arrampicato su un colle, posto a piombo sul bellissimo golfo, dominato da case di immacolato biancore, su cui contrasta l’azzurro di inferriate, ringhiere, porte, con bellissimo effetto bicromo, anche se alla lunga un po’ tedioso per una ripetizione ancora una volta non differente, priva di varianti. E beninteso, nelle stradine, negli antri, nei voltoni, si dispiega il tripudio delle paccottiglie ispirate al folclore del luogo, con la pacifica aggressione con cui i venditori assediano noi turisti, e qui sì che si sentono battute in italiano, ma proprio perché il livello è popolare, spicciolo, degradato, prescindendo dall’ufficialità che spetta solo al francese.