Arte

Una tappa intermedia nel lungo percorso degli espressioninsmi

Chiude proprio oggi alla Triennale di Milano una mostra dedicata alla Collezione di Giuseppe Iannaccone, straordinario raccoglitore di opere di arte italiana nel periodo 1920-1945, con annuncio di nuove puntate in cui apparirà come questo collezionista si sia comportato verso gli esiti successivi. In sostanza, è una carrellata sui nostri anni Trenta, abbastanza compatti a determinare una situazione che per un lato reagiva alla precedente stagione di “richiamo all’ordine”, tra Valori Plastici e Novecento, invitando artisti più giovani a rimettere i piedi in terra, magari saltando una generazione e raccogliendo i furori degli espressionisti del primo decennio, per il momento senza alcuna nozione di quanto si stava svolgendo al di là delle frontiere, chiuse dal regime fascista. Ma non dimentichiamo che era pur sempre possibile la famosa “Gita a Chiasso” poi ironicamente imputata daArbasino ai danni di quei giovanotti di allora, in definitiva troppo ligi a divieti non così ultimativi e irrimediabili. Io ho i conti apposto verso tutto quel blocco di esperimenti, gli ho dedicato un saggio in una mostra, quella tenuta da Hulten e Celant a Palazzo Grassi, nel 1989. Non solo, ma in quell’occasione non ho mancato di collegare gli espressionismi, per quanto più pacati e distesi di quel momento, alla stagione dei primi espressionismi di casa nostra, più sferzanti e acuminati, tesi tra i casi di Arturo Martini e di Lorenzo Viani, con in mezzo tutto il primo tempo dei Futuristi, quando, Balla e Boccioni in testa, si soffermavano a maltrattare un figurativismo abbastanza normale, non osando per il momento di applicargli una superfetazione geometrica. Per conoscerla gli occorreva incontrare il Cubismo parigino. E non basta ancora, vado cercando da molto tempo una sede che sia disposta a documentare le successive risorgenze di un espressionismo capace di rimbalzare nei decenni, come il fenomeno che in francese si direbbe del “ricochet”, del sasso piatto che salta fuori dall’acqua, vi affonda, salvo a tornar fuori un poco più in là. Infatti abbiamo visto ricomparire il fenomeno espressionista a guida dei Nuovi Selvaggi tedeschi, Baselitz e compagni, pronto a esercitare un diretto influsso sui membri della Transavanguardia, si pensi soprattutto a un Chia, a un Cucchi, mentre i miei amati Nuovi-nuovi si ispiravano piuttosto alle grazie leggere di un neo-liberty, e gli Anacronisti cercavano addirittura di rieditare il neoclassicismo novecentesco. Ma in definitiva era pur sempre nel complesso un ritentare le sorti di un figurativismo esteso e multiforme. E la cosa non è finita, chi mi segue su queste pagine clandestine ha visto le lodi che ho dedicato a Hockney, anche lui perfetto nel sostenere una ambìgua sospensione tra uscite neo-espressioniste, e invece di raffinato neo-liberty, anticipato su questa strada, tutta anglo-americana, da Alex Katz, e spalleggiato da Chantal Joffe. Per non parlare di certi ritorni alla pittura che si hanno anche tra giovani artisti di casa nostra, come i Padovani Andrea Grotto, Cristiano Menchini, Adriano Valeri, e un nomade come Alessandro Roma. Potrei anche aggiungere un giovane di primo pelo come sarebbe il sottoscritto, con il suo ritorno ai pennelli, non so ancora se da ritenersi del tutto velleitario o non privo di qualche merito.
Si dirà che tanta discendenza è eccessiva, da far gravare su quegli anni del nostro cammino, che furono tutto sommato alquanto provinciali e di scarsa rilevanza. Ma certo è che, al giorno d’oggi, mi sento tenuto pure a mettere la sordina al richiamo di “magnifiche sorti e progressive” che sarebbe subentrato al termine del conflitto mondiale. Siamo sicuri che quando proprio molti di quegli artisti, vergognatisi dello stile basso cui si erano dati fino a quel momento, tentarono di rialzarlo applicandovi gli stilemi del postcubismo, facessero cosa utile e salvifica? Ho detto più volte che taluni pittori, deliziosi quando si avvolgevano appunto nelle spire di un espressionismo naturalista ben sostenuto, si rovinarono quando passarono a schematizzarlo inserendovi a forza delle griglie geometriche. Penso ai casi di Fausto Pirandello, di Mario Tozzi, di Enrico Paulucci, quest’ultimo, chissà perché, non presente nella raccolta Jannaccone, Forse Birolli e Afro furono più articolati e sapienti nell’affrontare le ingegnose spezzettature para-geometriche, ma in definitiva fu una fase di transizione, un falso aggiornamento che presto dovette cedere il passo all’arrivo dell’Informale, dell’Art autre, in cui alcuni di questi alfieri degli anni Trenta potenziarono la loro vena, soffiarono più forte nelle canne delle zampogne pastorali. Penso a Ennio Morlotti, a Emilio Vedova, e a Mattia Moreni, che suppongo vedremo comparire nella prossima puntata di questa Collezione. Ma anche tali traguardi, che allora ci apparvero convincenti, sono stati a loro volta superati da traguardi successivi, da trincee più avanzate, da andare ad occupare. Dobbiamo comunque far risuonare il triste motto, “mais où sont les neiges d’antan”? Ormai non bastano a saziarci gli svolgimenti di specie Pop, e perfino “concettuale”. Di passaggio in passaggio, chi ci dice che ora non siamo tornati “al tempo”, secondo la formula degli esercizi ginnici, quando, dopo esserci tanto industriati a sporgere le braccia, a mettere il petto in fuori, a saltellare sulle gambe, ritorniamo a porci sull’attenti e a incollare le braccia ai fianchi? A portarci maliziosamente verso il ritrovamento di tappe ritenute del tutto superate ci guida la fotografia, con la sua adesione piatta al reale, che di conseguenza si trascina dietro pure il riproporsi di un figurativismo arreso, magari opportunamente schiacciato, magari già pronto per applicazioni di wall painting o di moralismo.
Collezione Giuseppe Jannaccone, Italia 1920-1945, Milano, Triennale, fino a oggi 19 marzo, cat. Skira.

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