Mercoledì scorso 1° febbraio è uscito su “Repubblica” un ampio articolo di Alberto Asor Rosa sul romanzo di Tolstoj “Anna Karenina”. Ancora una volta mi stupisce che non si tenga mai conto della abissale differenza tra il “moderno” e il “contemporaneo”, andando al di là delle etichette, che di per sé possono essere dichiarate fatue, ma dietro di loro ci sono dati storiografici imprescindibili. Io da sempre tento di portare l’accento su tali differenze. L’ho fatto anche nel mio saggio intitolato appunto “La narrativa europea in età moderna”, con un sottotitolo chiarificatore, “Da Defoe a Tolstoj”, dove una attenta analisi dell’indubbio capolavoro tolstojano veniva però opposta all’altro capolavoro di Gustave Flaubert, “Madame Bovary”, visto, questo, come vigorosa anticipazione di quanto ho poi esaminato in un saggio apposito, “La narrativa europea in età contemporanea”, con protagonisti indicati in Joyce e Proust and company. Il primo, edito da Bompiani, il secondo da Mursia. Ma queste mie cose sono cadute nel vuoto, e dunque, Asor Rosa può dichiarare tranquillamente un “non ti curar di loro ma guarda e passa”. Però, se non c’è il misero Barilli, ci sono testi fondamentali, come quello di Joseph Warren Beach che già alla metà del secolo scorso tracciava con la spada i limiti esistenti tra la narrativa contemporanea e quella, non diciamo “moderna”, termine temo da lui non usato, ma comunque ottocentesca, tradizionale, “ben fatta”. Ebbene, il romanzo di Tolstoj è un esempio perfetto di tutti i canoni che dobbiamo attribuire al “romanzo ben fatto” di matrice ottocentesca, mentre al contrario quello di Flaubert è un valido anticipatore dei nuovi caratteri che saranno del nostro ciclo culturale, anche se non lo vogliamo chiamare col debole vocabolo di “contemporaneo”. La diagnosi dell’articolista per quanto riguarda gli aspetti dominanti dell’opera tolstojana è perfetta, ma bastava appunto aggiungere la nota che tanta perfezione risponde ai tipici aspetti del passato, da cui l’intero Novecento è uscito, preferendo semmai andare a rintracciare le proprie origini nella “Bovary” flaubertana. A cominciare da quel celebre “Madame Bovary c’est moi”, infatti uno dei più marcati tratti differenziali è che un narratore dei nostri tempi non si può chiamare fuori, come invece era lecito al “moderno”, cioè tradizionalista, conservatore romanziere russo, che contempla dall’alto i casi dolorosi della sua eroina, cui riserva una generica simpatia umana, ma non priva di una sostanziale condanna morale. Tolstoj era un paladino dei valori della famiglia, per cui alla moglie non era lecito infrangere il vincolo coniugale, anche in presenza di un consorte cinico, freddo e disumano come il burocrate Karenin. Ben le sta dunque la costrizione al suicidio, anche per ribadire il confronto tra la sua condotta malgrado tutto tralignante e invece il più retto cammino della cognata, che perdona le scappatelle sentimentali del marito, e fratello di Anna. Al contrario, Flaubert scende in campo, dichiara una almeno parziale condivisione della rivolta condotta dalla sua eroina contro le ipocrisie, le repressioni, i falsi buoni sentimenti del sistema borghese. Aggiungo che, oltre a segnalare tutto ciò nei miei saggi, ho pure ricavato, nel caso specifico, una pièce per mettere a confronto un simile diverso atteggiamento dei due scrittori, l’uno del tutto conformista, l’altro avviato a impostare una rivolta, etica, sessuale, femminista. Del resto, i tribunali dell’epoca non si sono sbagliati, sottoponendo a processo il narratore francese, mentre al contrario al suo collega russo avrebbe potuto essere rivolta una menzione d’onore per come ha difeso i valori della famiglia. Qualche giorno fa questa mia pièce è stata recitata a Milano, con apertura di dibattito al termine, dove una spettatrice ha dichiarato con grande stupore di ritenere indebito, profanatorio il mio proposito di mettere sullo stesso piatto della bilancia l’enorme, da tutti ammirato Tolstoj e il marginale, eccentrico, minore a tutti gli effetti suo infelice concorrente. Se per caso quella persona ha letto l’articolo di Asor Rosa, si sarà rincuorata, avrà pensato di aver avuto ragione nel criticare un povero untorello come il sottoscritto. Ma dove vanno a finire i valori di un fronte di sinistra, di cui Asor Rosa, in astratto, si è sempre dichiarato sostenitore, mentre nell’esercizio critico risulta essersi sempre schierato a favore dei criteri dominanti?