La Galleria Art Forum Contemporary di Bologna presenta una personale di Pierluigi Pusole, cosa che mi fa molto piacere perché ho creduto molto in questo artista torinese, tanto da invitarlo all’”Aperto” della Biennale di Venezia del 1990, dove ero in commissione, assieme a “curatori” di prestigio come il francese Bernard Blistène e il tedesco Wenzel Jacob. Eravamo al termine della stagione dei citazionismi verso l’aprirsi di nuovi orizzonti. E le mie scelte si erano mosse in tale direzione, portandomi a invitare un ultimo esponente dei Nuovi-nuovi, Pino Salvatori, al limite della barriera dei “nati entro il 1955” che eravamo tenuti a rispettare, e poi invece qualche rappresentante dei nuovi indirizzi, come per esempio due esponenti dei Nuovi Futuristi, il trio dei Plumcake, allora uniti, e Gianantonio Abate, oltre al numero uno di chi presso di noi capeggiava questa svolta, Stefano Arienti. Ma soprattutto avevo insistito per l’inclusione di alcuni “fari” del cambiamento, come Jeff Koons e Wim Delvoye. Tra queste proposte che, anche viste a posteriori, mi sembra siano state molto giuste e opportune, c’era appunto Pusole, con il suo discorso difficile da collocare, sospeso tra astrazione e figurazione, ma in modo tale da evitare le secche e i guai che potevano venire da ciascuna di queste tendenze se praticata con troppo rigore. La sua astrazione era in realtà l’omaggio a una sorta di arabesco pronto a sdoppiarsi lungo un asse verticale di simmetria, così ne veniva fuori una sorta di “testo di Rorsach”, però raddrizzato, più simile al percorso per le palline di un bigliardino, queste ultime corrispondenti a delle specie di pomi, di arance pronte a saltellare entro quel circuito magico, dandogli una vivida nota di colore ma anche evitando di precisarsi troppo. In seguito Pusole, a mio avviso, ha rotto il suo bell’equilibrio dando troppo risalto alla componente figurativa, con profili antropici definiti in eccesso, forse perché caduto sotto l’influsso della Galleria milanese Cannaviello, sostenitrice ad oltranza dei vari figurativismi in chiave più o meno espressionista provenienti dal mondo tedesco, quello stesso che ha esercitato un’influenza, a mio avviso non benefica, anche sui nostri Transavanguardisti. E così pure Pusole ha ingrossato, appesantito il suo discorso. Per fortuna, a giudicare dai dipinti in cui si produce da qualche tempo, e che ora nell’esposizione bolognese danno di sé una prova convincente, i profili umani si sono come svuotati, sopravvivono, ma in definitiva si scavano nicchie di assenza, in un paesaggio che li circonda, affidato a sua volta al prevalere di tinte clorofilliane, verdeggianti, da bosco incantato, cinte a loro volta da tinte di cielo azzurrino. Il tutto, insomma, svolta verso un clima di fiaba. Per quanto riguarda le sagome antropiche, mi vengono in mente i vuoti che la fatale eruzione del Vesuvio, nel 79, consumando i corpi con ceneri infuocata, si è lasciata sul suo cammino, anche se poi si è provveduto a riempirli e a evidenziarli con colate di cemento. Qui per fortuna i vuoti resistono, e se ne stanno in saggio equilibrio con i pieni. Il che va ripetuto anche per un’altra serie di opere che arricchiscono la presente personale. Si tratta di profili di monti, anch’essi emergenti da un mare di nebbie, e del resto anch’essi affidati a tinte violacee che gli danno un carattere di sospensione magica, onirica. Tanto è vero che, mentre in alcuni casi queste catene montane si precisano alquanto, subito accanto permangono a uno stato di progetti affidati a tenui tracciati di disegno, come in un album che chiede la partecipazione del lettore, all’insegna di un “questo l’ho fatto io”, riempite i vuoti se vi fa piacere. Oppure sarà l’artista stesso a riempirli, nello sviluppo del suo lavoro, che quindi lascia aperte davanti a sé prospettive interessanti, anche se al momento indefinibili.
Pierluigi Pusole, “Phaenomenon”, a cura di Valerio Dehò. Bologna, Galleria Art Forum Contemporary. Fino al 25 febbraio.