Letteratura

Landolfi, una esasperata fisicità

Anche il tema di questa domenica (25-12-16) sta nella ricerca di materiali da far entrar nel mio contributo al numero sul Realismo magico, messo in cantiere dalla rivista “L’indipendente”. Nella scorsa domenica avevo accennato a un tema già da me saggiato, seppure di sfuggita. Infatti mi era già capitato di esprimere una piena adesione alla Morante per la sua “opera prima”, “Menzogna e sortilegio”, pur non arrivando certo a inserirla in una via maestra del contemporaneo e della relativa problematica. Si tratta infatti di una vicenda di amori estremi, disperati, patiti fino alla morte, da ricollegare caso mai a cupe vicende ottocentesche, ma riprese con lodevole energia. Invece non mi è mai capitato di parlare di Tommaso Landolfi, essendo stato messo in fuga, in qualche tentativo di leggerlo, da certi aspetti arcaicizzanti e cruschevoli del suo linguaggio, e anche dal dubbio che ci fosse in lui la forza di giungere alla lunga misura del romanzo. In effetti, il modo migliore per capire l’importanza di Landolfi sta nell’avvicinarlo tramite le sue “Più belle pagine”, scelte da Italo Calvino, in un denso volume BUR del 1989, con una valida postfazione in cui lo scrittore ligure si rivela assai più compreso del suo ruolo e competente rispetto a quando aveva affrontato, lui peso leggero, un peso massimo come il polacco Joseph Conrad. Giusto invece evocare sullo sfondo, per questo narratore, gli esempi “maledetti” di Barbey d’Aurevilly e di Villiers dell’isle-Adam. Ma mi chiedo se, risalendo per li rami di questa progenie infernale, non sarebbe il caso di pervenire a un apripista assoluto quale Edgar Allan Poe. Preciso ancora che, oltre ad apparirmi, una lettura per brani scelti, il modo migliore di approccio a Landolfi, sarei pure per lasciar perdere il tentativo del postfatore di procedere con articolazioni dall’incidenza dubbia, come la pretesa di distinguere tra racconti fantastici, ossessivi, dell’orrido, in quanto tutte queste sono categorie che si fondono e vengono a coincidere, nella fantasia esacerbata del loro ideatore. Infatti, al di là di preamboli o osservazioni di varia umanità, di cui Landolfi spesso è prodigo, quello che conta, in ogni suo racconto, è un nocciolo duro di qualche evento di orrida fisicità, sfuggente a ogni interpretazione accessoria, ma che vale invece proprio per la sua concretezza brutale, fino a provocare la nausea. Come succede subito in un primo racconto, detto “del lupo mannaro”, dove due amici dialoganti scoprono che dal caminetto è venuto fuori un corpo strano, di una materia che in sé sarebbe lucida, vitale, ma che un velo di fuliggine ha coperto e quasi spento. Ebbene, quello altro non è che uno spicchio di luna, e infatti il nostro satellite è scomparso dalla vista, chissà se riuscirà a risollevarsi, a liberarsi dalla scorza abbrutente e tornare a risplendere. Ugualmente orrida e raccapricciante è l’esperienza affidata a “Lettere dalla provincia”, dove il narrante riferisce di quanto gli è capitato di verificare di persona, che cioè in una comunità marginale o appunto di provincia gli esseri umani vanno in letargo, come gli animali delle scale biologiche inferiori. Capita di vederli imbozzolati in contenitori dall’aspetto dubbio e disgustoso, in attesa di un risveglio non del tutto probabile. In genere Landolfi ha una vivida capacità di provocare in noi le sensazioni allarmanti prodotte da incontri casuali con insetti, o animali comunque inferiori e tali da suscitare ribrezzo. Uno dei capolavori di quest’ordine è il racconto intitolato alle labrene, che però fungono solo da innesco alla vicenda. L’incontro con questi animaletti sfuggenti provoca una sorta di letargo nel protagonista, che viene addirittura creduto defunto, con l seguito di operazioni consuete in casi del genere. Questo è proprio il momento in cui Landolfi procede in totale parallelismo con Poe e col suo noto incubo di poter finire sepolto nella bara ancora vivente. Straordinari sono gli stati d‘animo del mancato defunto che si sente collocato nella bara, quindi racchiuso col coperchio, avvertendo pure le mosse di chi lo imbullona. Ci sentiamo solidali con lui in tutti gli sforzi per emettere qualche segnale di sopravvivenza. Accanto alle labrene, un analogo ruolo sconvolgente, allarmante è tenuto dai topi, con cui in varie occasioni i protagonisti di questi racconti intrattengono lotte a più riprese, magari con l’aiuto di qualche rappresentante della famiglia animale “più fedele all’uomo”, cioè di qualche cane, però suscettibile di avvertire insieme col padrone i medesimi sentimenti di orrore e di schifo estremo. Da notare che non ci sono diaframmi separanti, epidermidi di contenzione, tali da fornire uno schermo, ai contatti più rivoltanti. L’estremo materialismo cui Landolfi si concede prevede che le pelli di persone e animali si possano squarciare e che le interiora si affaccino all’esterno, magari in filamenti che solcano i pavimenti, lasciandovi tracce ambigue e indecifrabili. Si aggiunga che neppure la bellezza femminile è immune da rischi del genere. In “un petto di donna” un giovanotto galante, avendo salvato da un pericolo tranviario una giovane in apparenza avvenente, chiede come compenso il diritto di baciarle un capezzolo, ma questo si rivela ripugnante, come avvicinare le labbra a qualcuno di quegli animali importuni e rivoltanti di cui queste pagine sono sempre pronte a comunicarci l’orrore di contatti. Ma il record in questa scala di esperimenti orrorifici si raggiunge nel “Mar delle blatte”, quando un bastimento, su cui si svolgono eventi non proprio notevoli, e anzi improntati a quelle tecniche digressive e spiazzanti cui Landolfi troppo spesso cede, viene cinto d’assedio da una torma di scarafaggi, pronti a moltiplicarsi, a infittirsi, a far nereggiare la distesa delle onde, e del resto gli orripilanti insetti non rispettano i bordi della nave, ma la invadono, procedono inesorabili alla sua intera occupazione. Probabilmente in linea con queste invasioni aliene può essere posto anche l’incontenibile vizio del gioco da cui il nostro autore si dichiara oppresso, soffocato, fino a meditare la liberazione con l’atto del suicidio. Ma anche nell’immaginare l’attuazione di questo gesto estremo l’ideatore ci mette un bel quantitativo di fisicità repellente, scostante: si immagina caduto in una foiba, non morto sul colpo, ma rimasto ridotto a mal partito, a contatto con pareti coperte di muffa e percorse dallo zampettare dei temuti insetti, punizione di natura infernale, tanto da dissuadere il malcapitato dal procedere per quella strada. L’osservazione è generalizzante, nell’universo di questo autore tutti i percorsi portano a qualche contatto immondo, descritto con prolungata, estenuante efficacia.

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