Sono sotto il fortissimo impatto esercitato su di me dalla rilettura dell’opera prima e capolavoro non più sorpassato di Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”. A indurmi alla rilettura è un impegno preso con la rivista “l’indipendente”, auspice l’amico Francesco Muzzioli, di collaborare a un numero speciale dedicato alla narrativa del Realismo magico. Ma, a conti fatti, non so se la nozione di “menzogna”, con relativa parentela alla magia, pur dichiarata nel titolo dell’opera, sia davvero rispondente. Ci starebbe assai meglio il titolo del capolavoro di Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”, ma con la variante che il romanzo della scrittrice inglese porta a un superamento dei due vizi mentali indicati nel titolo stesso. Non per nulla, trattando di quel segmento di storia della narrativa europea, ho collocato l’opera nella serie inaugurale di una sensibilità “contemporanea”, che insegna a superare quelle restrizioni mentali per accedere ad abiti di tolleranza e di apertura al prossimo. Caso mai, a voler insistere a pescare in un deposito di capolavori anglosassoni, per quello della nostra autrice ci starebbe bene un riferimento alle “Cime tempestose” di Emily Brontë, tante sono le cariche di odio inesorabile, nutrito fino alla morte, messe in atto dai vari protagonisti di quella vicenda. Lo sfondo sarebbe di realismo tout court, in una nostra città meridionale, in cui è facile ravvisare Napoli, dove si alternano, si oppongono il benessere delle case agiate e patrizie e la miseria del proletariato. Ma queste condizioni di fortuna, alta o bassa che sia, risultano cancellate dagli stati di “orgoglio” che porta certe famiglie, col pane scarso e a rischio di venir meno, a rinunciarvi però, per respingere con gesto di superbia se un qualche aiuto economico viene elargito a titolo caritatevole da rami di famiglia rimasti nell’agio, nel benessere, che a un tratto vogliono farsi generose verso parenti decaduti, ma senza gratificarli di un qualche riconoscimento. L’ampio romanzo è un balletto di tentativi d’amore respinto, proprio in nome di un orgoglio smisurato, che diviene fonte di pregiudizio. Vediamo i termini di questa catena, non certo della felicità, bensì del rifiuto, dell’abominio, di personaggi che si nutrono di rancori capaci di spingersi oltre gli stessi termini della vita. Siamo introdotti a queste tragiche vicende da Elisa, ultima vittima di tanti dolori e abbandoni. Attraverso le sue parole sfila una interminabile galleria di rinunce, di condanne, di autoaccuse. La protagonista ci parla in primo luogo della madre, Anna, che però l’ha odiata, in quanto il suo affetto è andato fin da un primo incontro al cugino Edoardo, del suo stesso ramo dei nobili Cerentano, da cui però lei stessa era stata espulsa. Sua colpa, aver amato alla follia il padre Teodoro, che da quella casta proveniva ma si era fatto ripudiare per mala condotta, per dissipazione, per una vita volubile, erratica, da finto gran signore, in realtà avendo sempre alle calcagna una folla di creditori. Ma questa mescolanza di grandeur e di miseria lo aveva avvolto in un fascino irresistibile agli occhi della figlia Anna, che dunque lo ama alla follia, e davvero strazianti sono le pagine in cui ce ne viene narrata la morte, vegliata come da un animale fedele della figlia, che in cambio ha solo disprezzo per una madre, Cesira, scialba, dimessa, eppure sempre all’opera per guadagnare il poco pane capace di sostenere il povero ménage. L’amore folle che Anna ha tributato al padre è pronto a rivolgersi, come già detto, verso il cugino Edoardo, in parte ricambiata, in parte schernita, respinta, in questa commedia degli errori e dei ripudi a catena. Inesauribile è la fantasia della Morante, nell’immettere sempre nuove figure per alimentare questo sacro fuoco degli orgogli e pregiudizi mal spesi. A un certo momento salta fuori un certo Francesco De Salvi che si stringe in forte quanto inspiegabile amicizia col nobile e presuntuoso Edoardo. Ma anche lui ha un segreto, è figlio di tale Nicola Monaco, che a suo tempo era stato l’onnipotente amministratore dei beni di fortuna dei Cerentano, ma poi licenziato avendone scoperto la disonestà a proprio favore. Questo Nicola aveva fatto a tempo a ingravidare un’onesta contadina della campagna, Alessandra, in definitiva l’unica figura positiva della vicenda, affezionata a colui che l’aveva messa incinta e di conseguenza al figlio. Il quale a sua volta ha la sventura di innamorarsi di Anna, il cui cuore però, come sappiamo, è rivolto in esclusiva alla mitica figura del Cugino, tanto più legata a lui quanto più questi la maltratta, la irride, la disprezza. Eppure il povero Francesco fa di tutto per ingraziarsi la coniuge, rinuncia agli studi, affronta un duro ruolo di impiegato nelle ferrovie, accettando di fare gravosi straordinari, e di affrontare estenuanti viaggi notturni di servizio postale, finché non resta vittima, proprio nell’esercizio di questo stremante dovere, di un banale incidente. Ma nessuno piange su di lui, dato che moglie e figlia hanno “il cuore altrove”, per dirla col titolo azzeccato di un film di Pupi Avati. E proprio come nei folli amori che percorrono le “Cime tempestose” della Brontë, anche qui i morti non escono di scena, forse questo è il sortilegio che dà ragione al titolo dell’opera. Ben presto si capisce che il balordo, pretenzioso Cugino, trascinato anche lui alla perdizione da una vita oziosa, muore di tubercolosi. La madre non accetta quella scomparsa, anzi, si crea il mito (la menzogna?) che l’adorato figlio sia solo in viaggio, e accetta la favola che dai luoghi favolosi in cui cura il suo male sia rimasto in rapporto epistolare con la cugina Anna. E’ dunque per questa l’ora del risarcimento, ora viene accolta dalla famiglia dei parenti, e in particolare dalla madre addolorata, con cui ha lunghi abboccamenti per leggerle le false lettere ricevute dal principino in esilio. Quindi anche Anna cede allo strazio, mentre dalle retrovie balza fuori un altro dei personaggi di cui è disseminata questa storia infinita, tale Rossana, donna di malaffare, ma dal cuore immenso, sempre pronta a farsi carico di Francesco, da lei amato alla follia, nonostante che costui si vergogni di trovarsi al fianco quel soggetto disprezzato da tutti. Ma sarà lei l’unica a saltar fuori dal dannato cerchio dell’orgoglio e pregiudizio, a superare quei cupi livori mortali e ad accedere a un’autentica carità cristiana accollandosi la sorte della smarrita, abbandonata, sopravvissuta a tanti lutti Elisa, con cui si chiude questa storia dannata, inesorabile, ma ricca di pagine tenute al più alto diapason di intensità sentimentale. Sono sotto il fortissimo impatto esercitato su di me dalla rilettura dell’opera prima e capolavoro non più sorpassato di Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”. A indurmi alla rilettura è un impegno preso con la rivista “l’indipendente”, auspice l’amico Francesco Muzzioli, di collaborare a un numero speciale dedicato alla narrativa del Realismo magico. Ma, a conti fatti, non so se la nozione di “menzogna”, con relativa parentela alla magia, pur dichiarata nel titolo dell’opera, sia davvero rispondente. Ci starebbe assai meglio il titolo del capolavoro di Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”, ma con la variante che il romanzo della scrittrice inglese porta a un superamento dei due vizi mentali indicati nel titolo stesso. Non per nulla, trattando di quel segmento di storia della narrativa europea, ho collocato l’opera nella serie inaugurale di una sensibilità “contemporanea”, che insegna a superare quelle restrizioni mentali per accedere ad abiti di tolleranza e di apertura al prossimo. Caso mai, a voler insistere a pescare in un deposito di capolavori anglosassoni, per quello della nostra autrice ci starebbe bene un riferimento alle “Cime tempestose” di Emily Brontë, tante sono le cariche di odio inesorabile, nutrito fino alla morte, messe in atto dai vari protagonisti di quella vicenda. Lo sfondo sarebbe di realismo tout court, in una nostra città meridionale, in cui è facile ravvisare Napoli, dove si alternano, si oppongono il benessere delle case agiate e patrizie e la miseria del proletariato. Ma queste condizioni di fortuna, alta o bassa che sia, risultano cancellate dagli stati di “orgoglio” che porta certe famiglie, col pane scarso e a rischio di venir meno, a rinunciarvi però, per respingere con gesto di superbia se un qualche aiuto economico viene elargito a titolo caritatevole da rami di famiglia rimasti nell’agio, nel benessere, che a un tratto vogliono farsi generose verso parenti decaduti, ma senza gratificarli di un qualche riconoscimento. L’ampio romanzo è un balletto di tentativi d’amore respinto, proprio in nome di un orgoglio smisurato, che diviene fonte di pregiudizio. Vediamo i termini di questa catena, non certo della felicità, bensì del rifiuto, dell’abominio, di personaggi che si nutrono di rancori capaci di spingersi oltre gli stessi termini della vita. Siamo introdotti a queste tragiche vicende da Elisa, ultima vittima di tanti dolori e abbandoni. Attraverso le sue parole sfila una interminabile galleria di rinunce, di condanne, di autoaccuse. La protagonista ci parla in primo luogo della madre, Anna, che però l’ha odiata, in quanto il suo affetto è andato fin da un primo incontro al cugino Edoardo, del suo stesso ramo dei nobili Cerentano, da cui però lei stessa era stata espulsa. Sua colpa, aver amato alla follia il padre Teodoro, che da quella casta proveniva ma si era fatto ripudiare per mala condotta, per dissipazione, per una vita volubile, erratica, da finto gran signore, in realtà avendo sempre alle calcagna una folla di creditori. Ma questa mescolanza di grandeur e di miseria lo aveva avvolto in un fascino irresistibile agli occhi della figlia Anna, che dunque lo ama alla follia, e davvero strazianti sono le pagine in cui ce ne viene narrata la morte, vegliata come da un animale fedele della figlia, che in cambio ha solo disprezzo per una madre, Cesira, scialba, dimessa, eppure sempre all’opera per guadagnare il poco pane capace di sostenere il povero ménage. L’amore folle che Anna ha tributato al padre è pronto a rivolgersi, come già detto, verso il cugino Edoardo, in parte ricambiata, in parte schernita, respinta, in questa commedia degli errori e dei ripudi a catena. Inesauribile è la fantasia della Morante, nell’immettere sempre nuove figure per alimentare questo sacro fuoco degli orgogli e pregiudizi mal spesi. A un certo momento salta fuori un certo Francesco De Salvi che si stringe in forte quanto inspiegabile amicizia col nobile e presuntuoso Edoardo. Ma anche lui ha un segreto, è figlio di tale Nicola Monaco, che a suo tempo era stato l’onnipotente amministratore dei beni di fortuna dei Cerentano, ma poi licenziato avendone scoperto la disonestà a proprio favore. Questo Nicola aveva fatto a tempo a ingravidare un’onesta contadina della campagna, Alessandra, in definitiva l’unica figura positiva della vicenda, affezionata a colui che l’aveva messa incinta e di conseguenza al figlio. Il quale a sua volta ha la sventura di innamorarsi di Anna, il cui cuore però, come sappiamo, è rivolto in esclusiva alla mitica figura del Cugino, tanto più legata a lui quanto più questi la maltratta, la irride, la disprezza. Eppure il povero Francesco fa di tutto per ingraziarsi la coniuge, rinuncia agli studi, affronta un duro ruolo di impiegato nelle ferrovie, accettando di fare gravosi straordinari, e di affrontare estenuanti viaggi notturni di servizio postale, finché non resta vittima, proprio nell’esercizio di questo stremante dovere, di un banale incidente. Ma nessuno piange su di lui, dato che moglie e figlia hanno “il cuore altrove”, per dirla col titolo azzeccato di un film di Pupi Avati. E proprio come nei folli amori che percorrono le “Cime tempestose” della Brontë, anche qui i morti non escono di scena, forse questo è il sortilegio che dà ragione al titolo dell’opera. Ben presto si capisce che il balordo, pretenzioso Cugino, trascinato anche lui alla perdizione da una vita oziosa, muore di tubercolosi. La madre non accetta quella scomparsa, anzi, si crea il mito (la menzogna?) che l’adorato figlio sia solo in viaggio, e accetta la favola che dai luoghi favolosi in cui cura il suo male sia rimasto in rapporto epistolare con la cugina Anna. E’ dunque per questa l’ora del risarcimento, ora viene accolta dalla famiglia dei parenti, e in particolare dalla madre addolorata, con cui ha lunghi abboccamenti per leggerle le false lettere ricevute dal principino in esilio. Quindi anche Anna cede allo strazio, mentre dalle retrovie balza fuori un altro dei personaggi di cui è disseminata questa storia infinita, tale Rossana, donna di malaffare, ma dal cuore immenso, sempre pronta a farsi carico di Francesco, da lei amato alla follia, nonostante che costui si vergogni di trovarsi al fianco quel soggetto disprezzato da tutti. Ma sarà lei l’unica a saltar fuori dal dannato cerchio dell’orgoglio e pregiudizio, a superare quei cupi livori mortali e ad accedere a un’autentica carità cristiana accollandosi la sorte della smarrita, abbandonata, sopravvissuta a tanti lutti Elisa, con cui si chiude questa storia dannata, inesorabile, ma ricca di pagine tenute al più alto diapason di intensità sentimentale. Sono sotto il fortissimo impatto esercitato su di me dalla rilettura dell’opera prima e capolavoro non più sorpassato di Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”. A indurmi alla rilettura è un impegno preso con la rivista “l’indipendente”, auspice l’amico Francesco Muzzioli, di collaborare a un numero speciale dedicato alla narrativa del Realismo magico. Ma, a conti fatti, non so se la nozione di “menzogna”, con relativa parentela alla magia, pur dichiarata nel titolo dell’opera, sia davvero rispondente. Ci starebbe assai meglio il titolo del capolavoro di Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”, ma con la variante che il romanzo della scrittrice inglese porta a un superamento dei due vizi mentali indicati nel titolo stesso. Non per nulla, trattando di quel segmento di storia della narrativa europea, ho collocato l’opera nella serie inaugurale di una sensibilità “contemporanea”, che insegna a superare quelle restrizioni mentali per accedere ad abiti di tolleranza e di apertura al prossimo. Caso mai, a voler insistere a pescare in un deposito di capolavori anglosassoni, per quello della nostra autrice ci starebbe bene un riferimento alle “Cime tempestose” di Emily Brontë, tante sono le cariche di odio inesorabile, nutrito fino alla morte, messe in atto dai vari protagonisti di quella vicenda. Lo sfondo sarebbe di realismo tout court, in una nostra città meridionale, in cui è facile ravvisare Napoli, dove si alternano, si oppongono il benessere delle case agiate e patrizie e la miseria del proletariato. Ma queste condizioni di fortuna, alta o bassa che sia, risultano cancellate dagli stati di “orgoglio” che porta certe famiglie, col pane scarso e a rischio di venir meno, a rinunciarvi però, per respingere con gesto di superbia se un qualche aiuto economico viene elargito a titolo caritatevole da rami di famiglia rimasti nell’agio, nel benessere, che a un tratto vogliono farsi generose verso parenti decaduti, ma senza gratificarli di un qualche riconoscimento. L’ampio romanzo è un balletto di tentativi d’amore respinto, proprio in nome di un orgoglio smisurato, che diviene fonte di pregiudizio. Vediamo i termini di questa catena, non certo della felicità, bensì del rifiuto, dell’abominio, di personaggi che si nutrono di rancori capaci di spingersi oltre gli stessi termini della vita. Siamo introdotti a queste tragiche vicende da Elisa, ultima vittima di tanti dolori e abbandoni. Attraverso le sue parole sfila una interminabile galleria di rinunce, di condanne, di autoaccuse. La protagonista ci parla in primo luogo della madre, Anna, che però l’ha odiata, in quanto il suo affetto è andato fin da un primo incontro al cugino Edoardo, del suo stesso ramo dei nobili Cerentano, da cui però lei stessa era stata espulsa. Sua colpa, aver amato alla follia il padre Teodoro, che da quella casta proveniva ma si era fatto ripudiare per mala condotta, per dissipazione, per una vita volubile, erratica, da finto gran signore, in realtà avendo sempre alle calcagna una folla di creditori. Ma questa mescolanza di grandeur e di miseria lo aveva avvolto in un fascino irresistibile agli occhi della figlia Anna, che dunque lo ama alla follia, e davvero strazianti sono le pagine in cui ce ne viene narrata la morte, vegliata come da un animale fedele della figlia, che in cambio ha solo disprezzo per una madre, Cesira, scialba, dimessa, eppure sempre all’opera per guadagnare il poco pane capace di sostenere il povero ménage. L’amore folle che Anna ha tributato al padre è pronto a rivolgersi, come già detto, verso il cugino Edoardo, in parte ricambiata, in parte schernita, respinta, in questa commedia degli errori e dei ripudi a catena. Inesauribile è la fantasia della Morante, nell’immettere sempre nuove figure per alimentare questo sacro fuoco degli orgogli e pregiudizi mal spesi. A un certo momento salta fuori un certo Francesco De Salvi che si stringe in forte quanto inspiegabile amicizia col nobile e presuntuoso Edoardo. Ma anche lui ha un segreto, è figlio di tale Nicola Monaco, che a suo tempo era stato l’onnipotente amministratore dei beni di fortuna dei Cerentano, ma poi licenziato avendone scoperto la disonestà a proprio favore. Questo Nicola aveva fatto a tempo a ingravidare un’onesta contadina della campagna, Alessandra, in definitiva l’unica figura positiva della vicenda, affezionata a colui che l’aveva messa incinta e di conseguenza al figlio. Il quale a sua volta ha la sventura di innamorarsi di Anna, il cui cuore però, come sappiamo, è rivolto in esclusiva alla mitica figura del Cugino, tanto più legata a lui quanto più questi la maltratta, la irride, la disprezza. Eppure il povero Francesco fa di tutto per ingraziarsi la coniuge, rinuncia agli studi, affronta un duro ruolo di impiegato nelle ferrovie, accettando di fare gravosi straordinari, e di affrontare estenuanti viaggi notturni di servizio postale, finché non resta vittima, proprio nell’esercizio di questo stremante dovere, di un banale incidente. Ma nessuno piange su di lui, dato che moglie e figlia hanno “il cuore altrove”, per dirla col titolo azzeccato di un film di Pupi Avati. E proprio come nei folli amori che percorrono le “Cime tempestose” della Brontë, anche qui i morti non escono di scena, forse questo è il sortilegio che dà ragione al titolo dell’opera. Ben presto si capisce che il balordo, pretenzioso Cugino, trascinato anche lui alla perdizione da una vita oziosa, muore di tubercolosi. La madre non accetta quella scomparsa, anzi, si crea il mito (la menzogna?) che l’adorato figlio sia solo in viaggio, e accetta la favola che dai luoghi favolosi in cui cura il suo male sia rimasto in rapporto epistolare con la cugina Anna. E’ dunque per questa l’ora del risarcimento, ora viene accolta dalla famiglia dei parenti, e in particolare dalla madre addolorata, con cui ha lunghi abboccamenti per leggerle le false lettere ricevute dal principino in esilio. Quindi anche Anna cede allo strazio, mentre dalle retrovie balza fuori un altro dei personaggi di cui è disseminata questa storia infinita, tale Rossana, donna di malaffare, ma dal cuore immenso, sempre pronta a farsi carico di Francesco, da lei amato alla follia, nonostante che costui si vergogni di trovarsi al fianco quel soggetto disprezzato da tutti. Ma sarà lei l’unica a saltar fuori dal dannato cerchio dell’orgoglio e pregiudizio, a superare quei cupi livori mortali e ad accedere a un’autentica carità cristiana accollandosi la sorte della smarrita, abbandonata, sopravvissuta a tanti lutti Elisa, con cui si chiude questa storia dannata, inesorabile, ma ricca di pagine tenute al più alto diapason di intensità sentimentale. Sono sotto il fortissimo impatto esercitato su di me dalla rilettura dell’opera prima e capolavoro non più sorpassato di Elsa Morante, “Menzogna e sortilegio”. A indurmi alla rilettura è un impegno preso con la rivista “l’indipendente”, auspice l’amico Francesco Muzzioli, di collaborare a un numero speciale dedicato alla narrativa del Realismo magico. Ma, a conti fatti, non so se la nozione di “menzogna”, con relativa parentela alla magia, pur dichiarata nel titolo dell’opera, sia davvero rispondente. Ci starebbe assai meglio il titolo del capolavoro di Jane Austen, “Orgoglio e pregiudizio”, ma con la variante che il romanzo della scrittrice inglese porta a un superamento dei due vizi mentali indicati nel titolo stesso. Non per nulla, trattando di quel segmento di storia della narrativa europea, ho collocato l’opera nella serie inaugurale di una sensibilità “contemporanea”, che insegna a superare quelle restrizioni mentali per accedere ad abiti di tolleranza e di apertura al prossimo. Caso mai, a voler insistere a pescare in un deposito di capolavori anglosassoni, per quello della nostra autrice ci starebbe bene un riferimento alle “Cime tempestose” di Emily Brontë, tante sono le cariche di odio inesorabile, nutrito fino alla morte, messe in atto dai vari protagonisti di quella vicenda. Lo sfondo sarebbe di realismo tout court, in una nostra città meridionale, in cui è facile ravvisare Napoli, dove si alternano, si oppongono il benessere delle case agiate e patrizie e la miseria del proletariato. Ma queste condizioni di fortuna, alta o bassa che sia, risultano cancellate dagli stati di “orgoglio” che porta certe famiglie, col pane scarso e a rischio di venir meno, a rinunciarvi però, per respingere con gesto di superbia se un qualche aiuto economico viene elargito a titolo caritatevole da rami di famiglia rimasti nell’agio, nel benessere, che a un tratto vogliono farsi generose verso parenti decaduti, ma senza gratificarli di un qualche riconoscimento. L’ampio romanzo è un balletto di tentativi d’amore respinto, proprio in nome di un orgoglio smisurato, che diviene fonte di pregiudizio. Vediamo i termini di questa catena, non certo della felicità, bensì del rifiuto, dell’abominio, di personaggi che si nutrono di rancori capaci di spingersi oltre gli stessi termini della vita. Siamo introdotti a queste tragiche vicende da Elisa, ultima vittima di tanti dolori e abbandoni. Attraverso le sue parole sfila una interminabile galleria di rinunce, di condanne, di autoaccuse. La protagonista ci parla in primo luogo della madre, Anna, che però l’ha odiata, in quanto il suo affetto è andato fin da un primo incontro al cugino Edoardo, del suo stesso ramo dei nobili Cerentano, da cui però lei stessa era stata espulsa. Sua colpa, aver amato alla follia il padre Teodoro, che da quella casta proveniva ma si era fatto ripudiare per mala condotta, per dissipazione, per una vita volubile, erratica, da finto gran signore, in realtà avendo sempre alle calcagna una folla di creditori. Ma questa mescolanza di grandeur e di miseria lo aveva avvolto in un fascino irresistibile agli occhi della figlia Anna, che dunque lo ama alla follia, e davvero strazianti sono le pagine in cui ce ne viene narrata la morte, vegliata come da un animale fedele della figlia, che in cambio ha solo disprezzo per una madre, Cesira, scialba, dimessa, eppure sempre all’opera per guadagnare il poco pane capace di sostenere il povero ménage. L’amore folle che Anna ha tributato al padre è pronto a rivolgersi, come già detto, verso il cugino Edoardo, in parte ricambiata, in parte schernita, respinta, in questa commedia degli errori e dei ripudi a catena. Inesauribile è la fantasia della Morante, nell’immettere sempre nuove figure per alimentare questo sacro fuoco degli orgogli e pregiudizi mal spesi. A un certo momento salta fuori un certo Francesco De Salvi che si stringe in forte quanto inspiegabile amicizia col nobile e presuntuoso Edoardo. Ma anche lui ha un segreto, è figlio di tale Nicola Monaco, che a suo tempo era stato l’onnipotente amministratore dei beni di fortuna dei Cerentano, ma poi licenziato avendone scoperto la disonestà a proprio favore. Questo Nicola aveva fatto a tempo a ingravidare un’onesta contadina della campagna, Alessandra, in definitiva l’unica figura positiva della vicenda, affezionata a colui che l’aveva messa incinta e di conseguenza al figlio. Il quale a sua volta ha la sventura di innamorarsi di Anna, il cui cuore però, come sappiamo, è rivolto in esclusiva alla mitica figura del Cugino, tanto più legata a lui quanto più questi la maltratta, la irride, la disprezza. Eppure il povero Francesco fa di tutto per ingraziarsi la coniuge, rinuncia agli studi, affronta un duro ruolo di impiegato nelle ferrovie, accettando di fare gravosi straordinari, e di affrontare estenuanti viaggi notturni di servizio postale, finché non resta vittima, proprio nell’esercizio di questo stremante dovere, di un banale incidente. Ma nessuno piange su di lui, dato che moglie e figlia hanno “il cuore altrove”, per dirla col titolo azzeccato di un film di Pupi Avati. E proprio come nei folli amori che percorrono le “Cime tempestose” della Brontë, anche qui i morti non escono di scena, forse questo è il sortilegio che dà ragione al titolo dell’opera. Ben presto si capisce che il balordo, pretenzioso Cugino, trascinato anche lui alla perdizione da una vita oziosa, muore di tubercolosi. La madre non accetta quella scomparsa, anzi, si crea il mito (la menzogna?) che l’adorato figlio sia solo in viaggio, e accetta la favola che dai luoghi favolosi in cui cura il suo male sia rimasto in rapporto epistolare con la cugina Anna. E’ dunque per questa l’ora del risarcimento, ora viene accolta dalla famiglia dei parenti, e in particolare dalla madre addolorata, con cui ha lunghi abboccamenti per leggerle le false lettere ricevute dal principino in esilio. Quindi anche Anna cede allo strazio, mentre dalle retrovie balza fuori un altro dei personaggi di cui è disseminata questa storia infinita, tale Rossana, donna di malaffare, ma dal cuore immenso, sempre pronta a farsi carico di Francesco, da lei amato alla follia, nonostante che costui si vergogni di trovarsi al fianco quel soggetto disprezzato da tutti. Ma sarà lei l’unica a saltar fuori dal dannato cerchio dell’orgoglio e pregiudizio, a superare quei cupi livori mortali e ad accedere a un’autentica carità cristiana accollandosi la sorte della smarrita, abbandonata, sopravvissuta a tanti lutti Elisa, con cui si chiude questa storia dannata, inesorabile, ma ricca di pagine tenute al più alto diapason di intensità sentimentale.