Arte

Beecroft: i volti in primo piano

Non sono mai stato molto favorevole a Vanessa Beecroft (1969), per lo meno finché il suo modo di fare arte consisteva in sfilate di modelle denudate, disposte a schiera, non si sa bene per quale scopo. Con una certa conflittualità interna, rispetto alla causa del femminismo, di cui si suppone che l’artista sia una sostenitrice. Ma quello non era forse un modo di mercificare la presenza della donna, moltiplicandone le apparizioni nelle stesse maniere con cui se ne ricavano copertine per riviste di lusso, per rassegne di moda o di cosmetici? Il mio giudizio è migliorato da quando ho visto una sua mostra alla Galleria Lia Rumma di Milano, ormai uno spazio privato che contende un ruolo di primo livello ai musei pubblici del capoluogo ambrosiano, dove fra l’altro in questi giorni compare una mostra del tedesco Reinhart Mucha, cui sono tentato di dedicare, prima o poi, una di queste mi visite in libertà. Il dato interessante di quella mostra era che la Beecroft vi faceva un passo indietro, da una esposizione di sembianze fin troppo ligie a un’attualità in carta patinata, fino a un passato di vario grado, come se quelle frivole e insulse bellezze dei nostri tempi richiamassero in vita delle loro lontane antenate immortalate nella pietra, nel marmo, o riemerse alla luce grazie a qualche scavo archeologico. La vacuità dell’oggi risulta così riscattata da un bagno nelle memorie, secondo un’applicazione della poetica del citazionismo, o della “ripetizione differente” su cui io stesso ho tanto insistito, in altre stagioni. Una mostra attualmente visibile a Milano, Palazzo Reale, Appartamento del Principe, gioca in apparenza una carta minore, esponendo una trentina di polaroids che l’artista ha preso in varie occasioni, tanto per fissare le pose, gli allineamenti, le apparizioni delle sue schiave fedeli. Oggi la rapidità della polaroid sarebbe sostituita dagli scatti presi col cellulare, o si passerebbe senz’altro alla sequenza video, ma la povertà e istantaneità del mezzo impiegato contribuiscono a sconfiggere quel tanto di troppo accurato e monumentale che può inficiare le figure muliebri di Vanessa. quando siano messe in posa con cura eccessiva. Ma soprattutto, in questa rassegna ci sono pochi esempi delle sfilate dei primi tempi e dei loro alquanto anonimi rituali collettivi, l’artista rivela invece un impegno a tu per tu con i volti o i mezzi busti delle sue modelle, e non se la cava con riproduzioni conformi, ma conduce sulle loro epidermidi qualche intervento significativo. Per esempio, vi stende un fard che ci ricorda la patina del bronzo, o le bende di una imbalsamazione, e dunque l’immagine assume una solennità ieratica, o addirittura funerea, quasi di mummia dissepolta, con occhi che però dardeggiano e ci fulminano dalle tenebre. Oppure il volto ci appare addirittura “bruciato”, come per un eccesso di esposizione alla luce, o viene coperto da uno strato di cerone, o avvolto in veli che lo rendono fantomatico, assente, allontanato da noi. Altre volte il volto non assume un rilievo plastico, come di maschera funebre. Insomma, e in conclusione, questa produzione ci mostra un’artista rivolta a integrare le sue apparizioni, a dar loro un consistente “valore aggiunto”, giocando su vari tasti, nel complesso opportuni ed efficaci.
Vanessa Beecroft, Polaroids 1993-2016, a cura di Alessia Glaviano. Milano, Palazzo Reale, fino al 29 novembre.

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