Arte

Le ottime ceramiche di Sissi

Sono stato molto contento ieri, sabato 19 novembre, entrando alla mostra che la Galleria Maggiore ha dedicato a Sissi, nell’ammirare la sua splendida produzione ceramica distesa sulla lunga parete frontale. E dire che in definitiva in questi giorni anch’io ho scommesso sulle ceramiche della nostra artista esponendone, nella mostra su “Bologna dopo Morandi”, il precedente più cospicuo affidato allo stesso materiale, quella visione di ossa spolpate e disseccate al sole che Sissi aveva già mostrato in una precedente Biennale di Venezia. Ma temevo che quell’opera, pur nell’indubbia maestria, nella felicità di aver già optato per il materiale meraviglioso che è la ceramica, segnasse una svolta pericolosa, rispetto al precedente percorso. Quasi che anche Sissi fosse stata colpita dal male oscuro, o fin troppo esplicito, che alcuni decenni prima aveva indotto Piero Manai a mutare il suo candido, fresco, limpido stile Pop in una greve visione di mostri assillanti. Ma se nel suo caso poteva funzionare l’alibi della malattia, da questo per fortuna è del tutto immune la nostra giovane protagonista, che resta un pieno ritratto della salute, nella sua esile ma elegante e scattante figura. La stessa che aveva saputo emettere da sé i propri rivestimenti, con la grazia, la prontezza e rispondenza che nel 2005 mi avevano portato ad assegnarle il Premio Belluno Cortina Artista dell’anno (bella stagione, finita per sempre). Come un industrioso baco da seta, Sissi sapeva emettere da sé un filo tenace con cui tesseva manti serici, lussuosi, anche se sempre volutamente inclinanti a una nota kitsch, da provocare e sconfiggere, E non parliamo di quando, armata di banalissimi cleenex, li mutava in una fitta siepe di orchidee, per non retrocedere addirittura alle primissime mosse, quando si cullava in abiti sontuosi su un isolotto galleggiante, o apprestava, sempre come favolosi capi di vestiario, dei vecchi copertoni d’auto. Mi è sfuggito un passaggio intermedio, una sontuosa tavola imbandita dalla Nostra per una performance condotta nell’Oratorio San Filippo Neri, acquistando il patrocinio di Maura Pozzati, che giustamente da lì l’ha seguita in questa impresa culminante. Come che il banchetto mortuario fosse stato finalmente sospeso e i commensali invitati a nutrirsi di tanti buoni cibi, magari accumulati a piramide, in orgogliosi trofei degni di banchetti luculliani, magari approdanti anche a menu, cioè a dichiarazioni letterali ugualmente sontuose, e già condite con qualche svolazzo barocco, o annunciate da foto anch’esse tripudianti nell’offrire ingegnose combinazioni di frutti e ortaggi. L’idea della mensa accompagna anche questa attuale esibizione totale, in quanto si parte da un servizio di piatti sottratto a qualche vetrinetta di un museo della civiltà, di usi e costumi, solo che dalle scodelle finemente modellate debordano le tracce di un banchetto sontuoso. Se si vuole, compaiono ancora una volta delle ossa, ma non più come triste annuncio di una sorte tragica, bensì come residui di portate generose e nutrienti. Non senza una qualche traccia residua di implicazioni macabre. Esce in questi giorni un mio saggio, “Narratori della generazione di mezzo”, in cui, fra gli altri, parlo del grande scrittore polacco Witold Gombrowicz, che senza subbio, avesse potuto venire a contemplare questa abbondante mensa, l’avrebbe approvata, proprio per il sapore ambiguo che la anima, Anche lui infatti ci ha parlato di banchetti in cui, al di sotto dell’eleganza nobiliare che ne regola sia l’allestimento sia la raffinata scelta dei partecipanti, tenuti a fare professione di belle maniere, non si tarda però a scoprire che in realtà quei nobili commensali stanno spolpando le carni di qualche essere umano, di qualche sguattero, sacrificato per il piacere di darsi a perfidi riti di antropofagia. Ebbene, anche i frammenti di ossa e di carne che anche in questa sontuosa apparecchiatura escono fuori dal vasellame aggraziato introducono una nota di allarme, di sospetto. Ovvero, non è che Sissi abbia abbandonato del tutto l’affondo in un universo barbarico, di violento espressionismo cui aveva ceduto nell’opera da cui sono partito, ma in definitiva è avvenuto un abile contemperamento, la raffinatezza, l’eleganza dei piatti di portata ha ceduto buona parte di questo suo aspetto alla temibile grossolanità delle carni balzate fuori, fino a far assumere loro una flessuosità, una leggerezza degne di un barocchetto, di un rococò fortunatamente ritrovati, a correzioni della grossolanità che diversamente i cibi avrebbero potuto mantenere. La regolarità delle “pance” di scodelle e fondine, quasi di pianeti di una costellazione, trova compenso, riscatto, arricchimento nella raggiera di escrescenze, di riccioli, come in una pettinatura ardita, magari ricca di toupet, di inserti posticci, o come se i pianeti emanassero da se una corona di raggi esorbitanti la loro circonferenza. Il risultato è straordinariamente movimentato, anche perché siamo di fronte a un ampio concerto, a un insieme concorde e ben intonato, da cui però talvolta si staccano singoli episodi, quasi per svolgere qualche brillante “a solo”, che vorremmo portarci via, andare a collocarlo sulle nostre pareti di casa a mo’ di specchiere, di mensole insinuanti e provocatorie.

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