Seguo da tempo, con sostanziale consenso, la narrativa di Livio Romano (1968), appartenente alla gloriosa ondata sorta negli anni Novanta ed emersa negli incontri di Reggio Emilia, a RicecaRE, cui si può accreditare una sorta di neo-neorealismo italiano, abile nell’andare a registrare il volto della nostra società attuale, misto di miserie riaffioranti e di nuove ricchezze effimere date dal progresso tecnologico, tra abissi nel male e lampi di mistiche estasi. Credo di aver salutato in questa chiave il suo “Mistandivò” del 2000.Ma poi mi ha sconcertato “Il mare perché corro”, 2011, forse per la ragione indicata dal titolo stesso, in quanto là il protagonista corre troppo, dal Salento, che è la base, il radicamento dei personaggi di Romano (la formula stessa di questo realismo ritrovato esige che si parta sempre da vicino, dai territori di cui si ha cognizione diretta) lo vediamo precipitarsi verso il Nord, con tangenze perfino oltremare, avventure nei paesi della ex-Jugoslavia o addirittura in Israele, vicende assai imbrogliate che solo tardivamente, dopo troppa dispersione, ritrovano la via di casa. Ora invece, col recente “Per troppa luce”, Romano non si allontana dal suo Salento, attorno a una città immaginaria, Neripoli, che forse è la copertura assai poco enigmatica di Gallipoli o di qualche località ben nota agli eroi della vicenda. Che sono in sostanza due, Antonio Congedo, ispettore del lavoro, e Simona Marris, avvocato al servizio delle buone cause. La coppia è legata da un vincolo d’amore profondo, ma, come è giusto che succeda al giorno d’oggi secondo l’attuale corso dei rapporti sessuali, sono entrambi pronti a tradirsi reciprocamente, a concedersi tutte le possibili deviazioni, magari anche a fini positivi. Infatti entrambi sono in sostanza combattenti per nobili cause, in una tacita alleanza che però quasi si vergogna di dichiarare, o se si vuole, parafrasando il titolo, di fare “troppa luce” sulla loro stessa onestà, e dunque si prestano ad ogni tentazione, da parte di ex-amici, compagni di scuola ritrovati, maggiorenti del luogo, gli uni e gli altri sempre pronti a mettere in piedi imprese truffaldine, come sarebbe la creazione di parchi tematici attorno a qualche presunto giacimento archeologico. I nostri eroi sembrano cedere, ma in ultima istanza con un guizzo, quasi come di un tuffatore che riesce sempre a risalire a galla, si riportano sul retto sentiero e danno scacco matto al partito dei corrotti e mafiosi. Anche se si guardano bene dall’apparire troppo tetragoni nella loro virtù, anzi la vicenda si anima proprio per le infinite tentazioni sessuali cui ciascuno degli amanti, in perenne reciproca libera uscita, si concede. Nell’inventare la trama mobile di intrighi, seduzioni, ricatti, talvolta brutali, talvolta giocati con armi sottili, l’Autore è inesauribile, forse troppo, forse una riduzione di tanta fertilità, il soffermarsi per più tempo e spazio su singoli episodi, avrebbero dato una maggiore consistenza alla trama. Ma resta la godibilità dei singoli spunti, animati da tante comparse incaricate di sciorinare il caleidoscopio delle perversioni sessuali dei nostri tempi, cui magari i nostri eroi cedono sempre nel nome di qualche buona causa finale. Godibile per esempio è l’avventura che “lei” ha con una burocrate affetta da un inguaribile lesbismo, cui la brava Simona concede senza esitazione, approfittando delle prestazioni macroscopiche, pantagrueliche che quella persona le chiede per far funzionare di nascosto la macchina dei versamenti da erogare agli eterni creditori, sempre in attesa che l’ente pubblico faccia il suo dovere nei loro confronti. Fra tante presenze che talvolta scadono in una girandola di imprese risibili, noi però siamo in diritto di godere l’accesso diretto ai due protagonisti e al loro flusso di sensazioni. Su questo fronte il punto più alto è quando l’Autore ci fa assistere in diretta addirittura alla morte di “lui”, di Antonio, fin dal manifestarsi dei primi sintomi e dal loro accrescersi, con riscontri da parte dell’interessato, e a noi per procura, che si fanno via via più acuti, quindi cessano, come un elettrocardiogramma affidato alla muta eloquenza del suo farsi piatto e immobile. Diciamo pure che non ce lo aspettavamo, tanto coraggio da parte del narratore, e anche la deuteragonista, la brava Simona, resta sconvolta dalla scomparsa del suo partner, fino a concepire un episodio di grande intensità emotiva, il recarsi sul far della notte nel cimitero dove il suo compagno giace, per portargli una rosa. Come si diceva, da un panorama di rovine, di bassi intrichi, di palude estesa a perdita d’occhio, emergono picchi, isole di bontà e di bellezza inaspettati.
Livio Romano, “Per troppa luce”, Fernandel, pp. 270, euro 16.