Si è concluso ieri sera, sabato 22 ottobre, un convegno svoltosi alla Spezia, nell’ampio spazio del Centro d’Arte Moderna e Contemporanea, CAMEC, volto a ricordare l’incontro che nella città ligure tenne, esattamente mezzo secolo fa, nel 1966, il Gruppo 63. L’evento è stato molto ben organizzato dall’Assessore alla cultura Luca Basile e dalla direttrice dei musei Marzia Ratti, che hanno convocato i protagonisti di allora ancora in vita, provvedendo anche a ideare i giusti sistemi per ricordare altri, presenti in quei giorni ma purtroppo in seguito scomparsi. Un primo interrogativo è stato di chiedersi perché mai la carovana del Gruppo avesse fatto tappa proprio alla Spezia. Io mi riconosco il merito di aver funzionato da “trait d’union” tra l’ieri e l’oggi, avendo collaborato con Basile e Ratti nel ricordare la prestigiosa rivista “L’eroica” che proprio in quel luogo ha avuto i suoi natali nel 1911. Ho partecipato sia alle manifestazioni per ricordare quell’evento importante, sia certi effetti derivati, come il concepimento di una mostra dedicata alle xilografie uscite da quel clima. Però ho dovuto confessare di non saper rispondere all’altro quesito. Ma niente paura, ho assicurato, il Gruppo 63 ha sempre avuto uno straordinario AD, amministratore delegato, nella persona di Nanni Balestrini, e dunque era a lui che, nel pomeriggio del venerdì, all’inizio di una sfilata di testimoni di quel momento, sarebbe toccato il compito di sciogliere l’enigma. Ma il nostro Nanni dichiarava onestamente che anche lui non si ricordava più chi e che cosa ci avevano portato in quel luogo. La risposta è venuta dal poeta visivo locale Franesco Vaccarone, che ha messo bene in risalto come fosse stato proprio l’eccellente clima di ricerche sperimentali verbo-visive esistente nel Golfo del Tigullio a propiziare quel raduno, anche con la benedizione della diffusa e onnipotente presenza di Edoardo Sanguineti, dalla sua cattedra e abitazione genovesi. Va detto “en passant” che il culto per questo loro grande concittadino da quelle parti si avverte ancora in pieno.
Quanto poi fosse accaduto in quei giorni, che cosa si fosse letto con relative discussioni, ricordarlo non è stato un problema, perché disponiamo da una dettagliata relazione stesa da Elio Pagliarani sull’Almanacco Bompiani dell’anno dopo, 1967. Nel che si ravvisa pure la modalità per far rientrare nell’intento celebrativo l’unico dei Novissimi che altrimenti non avrebbe tracce di presenza. Dunque, prima di tutto è venuta l’eterna questione della narrativa, l’eterno cruccio del Gruppo, o più in generale di ogni fronte sperimentale, incerto se concedere per questo genere letterario qualcosa ai diritti del pubblico e della leggibilità, o invece insistere su aspetti “illeggibili”, seminati di ostacoli. Qui si inserisce l’apporto di Francesco Muzzioli, che ha avuto delega da Gaetano Testa, impossibilitato a muoversi, e dalla vedova dello scomparso Roberto Di Marco, di leggere brani dei romanzi cui allora stavano lavorando. E’ risultato che i due membri della cosiddetta Scuola di Palermo non marciavano esattamente sulla stessa linea. Testa, in “Cinque”, che stava elaborando, fornisce brani rientranti in un “main stream”, ovvero in una “corrente di coscienza” che afferra in voluto disordine frammenti di percezione, stati d’animo, incontri occasionali. Di Marco invece, in “Fughe”, come dice il titolo stesso della sua opera, “fuggiva” dal quotidiano per affrontare una sorta di romanzo di avventure, volto a rivisitare temi e situazioni di una narrativa tradizionale, ma debitamente riveduta e corretta. Ovvero, egli praticava il “metatesto”, caro in particolare e sostenuto a spada tratta dallo stesso Sanguineti. Come dire che la narrazione gioca con se stessa, si propone in termini problematici, un indirizzo poi confermato magnificamente da un ultimo suo contributo prima di andarsene, “La donna che non c’è”. Ma a questo modo riesce possibile menzionare altre due presenze significative di quel raduno, Rossana Ombres, che in “Principessa Giacinta” propone anche lei lunghe sequenze di una figura femminile rivolta a indagare su se stessa, inanellare ricordi vicini e lontani, in questo caso identificandosi addirittura con la moglie di Martin Lutero. Comunque, cose da “daseinanalise”, da psicopatologia della vita quotidiana. Invece l’altra presenza femminile, Alice Ceresa, con la sua “Figlia prodiga”, giocava evidentemente la carta “concettuale” di una narrazione paradossale che mette in tavola un ragionamento volutamente cavilloso, ovvero, il racconto si fa da se stesso, e siamo davvero nell’ambito del “meta”, della narrazione al quadrato. Insomma, un testo che sarebbe da rilanciare, da mettere in correlazione con certi tentativi di narrazione “concettuale”, ipotetica, paradossale, sperimentati da un Baricco o da un Pincio. Da notare poi, l’opportunità che in quell’incontro si desse voce a due donne (ottima lettura dei loro brani condotta da Roberto Alinghieri) in un momento in cui la quota riservata ai colletti rosa risultava del tutto esigua e deficitaria. Certo è che il trend, il “main stream” allora dominante statisticamente era a favore dell’analisi coscienziale, ovvero di un racconto “fatto di niente”. Conferme sono venute da altre letture, Rosemary Liedl, moglie ed esecutrice testamentaria di Antonio Porta, ha letto un brano del romanzo, “Partita” cui allora l’autore stava attendendo, e anche qui, minuzie, registrazioni psicosomatiche, al confine con esperienze oniriche. Che era il clima pure di un saggio in prosa di Vincenzo Accame, riletto dal fratello Felice. Ma si è sperimentali, come allora lo erano tutti gli aderenti al gruppo, se si crede all’incrocio dei generi, e dunque da Porta ad Accame la stesura di brani “lunghi” in prosa veniva alternata da un’occupazione della pagina con segni in libertà, con lettere sciolte dal contesto, sciamanti in maniera caotica nel foglio, magari pure affidate alla chirografia, alla scrittura a mano. Infatti una delle peculiarità di quell’incontro è stata di prestare molta attenzione a queste intersezioni, al punto da procurare il matrimonio con gli aderenti dell’altra formazione, che proprio per distinguersi dalla concorrente si era data un obiettivo più lungo, chiamandosi Gruppo 70. Infatti alla Spezia comparvero in forze Lamberto Pignotti e Lucia Marcucci. Il primo ha parlato per sé e per la collega, impossibilitata a venire dallo stato di salute. Ma le parole non coprono l’aspetto visivo, e dunque si è sentita la necessità che la rievocazione fosse pure appoggiata a una mostra, dal titolo ambizioso “Da un’avanguardia all’altra”, proprio per significare un simile incontro tra prove verbo-visive di membri del Gruppo 63 ed altre più specializzate degli adepti del 70, del resto gli uni e gli altri procedenti verso traguardi sempre più sciolti, verso una prospettiva che a un certo punto ha preso pure il nome di poesia simbiotica, basata su una coesistenza di lettere e grafismi più informi, arricchiti anche da macchie, chiazze cromatiche, come testimoniato anche dal caso del genovese Luigi Tola. Il che del resto è avvenuto di recente nelle prove sempre più convinte stese da Nanni Balestrini, che a lungo ha operato incroci tra immagini rubate al museo e brevi, incalzanti cartigli. Poi anche lui ha fatto sgocciolare su un tappeto di scrittura larghe macchie di inchiostro tipografico.
Se senza dubbio è stato interessante questo convergere da vari fronti verso il comune territorio del verbo-visivo, forse però l’aspetto più innovativo di quel convegno è stato che molti avvertissero come le soluzioni cartacee erano ormai insufficienti. L’elettronica stava facendo passi da gigante, e dunque anche le fonazioni e le relative performance gestuali potevano “restare”, affidate a nastri capaci di raccogliere in sé tutti i possibili dati visivi e sonori. Da qui, l’espansione gioiosa delle sonorità, delle urla incalzanti di Patrizia Vicinelli, mentre anche Amelia Rosselli, pur non rinunciando a una orchestrazione di parole e immagini ben calcolata, rendeva più incisivo il prodotto risultante affidandolo alla recita. Adriano Spatola stava meditando il grande balzo in avanti che tra poco avrebbe affidato al saggio “Verso una poesia totale”, stabilendo un geniale tandem innovatore con il talento beffardo, dissacrante di Corrado Costa, Tutto questo germinare di nuove vie è confluito negli anni in una serie di documenti raccolti in un ricco archivio da Daniele Rossi, che infatti, nella sera del venerdì 21, ha potuto proiettare lunghi brani di questo materiale di svolta. Infatti, sia nel resoconto di Pagliarani, sia in quello fornito da un partecipante d’eccezione, Umberto Eco, compare la percezione che fossimo in presenza di una frontiera, di un salto generazionale. Era in arrivo una avanguardia “terza”, che fuggiva in avanti, a preannunciare che stava terminando l’età dell’oggetto, della merce, del consumismo frutto della civiltà industriale. Stava arrivando il ’68 dove alla fabbricazione industriale si sarebbe sostituita la onnipresente e diffusa onda elettronica, sarebbe nato il “villaggio globale”, tutti ci saremmo sentiti coinvolti in una stessa rete. Ricordo che tra i meriti di Eco c’è stato quello di aver definito la prima avanguardia come la generazione dei Figli di Vulcano, poderosi, titanici. Noi, di una seconda generazione, eravamo invece i figli di Nettuno, freddi, compassati, in linea con l’asciutto, asettico universo oggettuale. Poi, e questa è definizione mia, sarebbero venuti i figli di Eolo, del Dio dei venti, la produzione letteraria sarebbe divenuta fluttuante, sganciata dal supporto cartaceo. In questo senso il coronamento della riunione è consistito nella possibilità di riportare in scena chi allora era stato salutato come l’ospite più sconvolgente e innovatore, da accogliere con entusiasmo o invece con riti di scongiuro e di condanna, Gian Pio Torricelli, che del resto aveva provveduto da solo ad andare oltre il limite, a passare il segno, a uscire del tutto da un ambito di normalità per affondare in uno stato di disagio mentale che lo obbliga tuttora a vivere in casa di cura. Un parente è riuscito a riportarcelo, e in definitiva dalla sua bocca è uscito un rivolo di creazione verbale, quasi come un baco da seta riesce a metter fuori un esile filo. C’è stato dell’altro, in quei due giorni, ne potrò riparlare una prossima volta, sperando che gli eccellenti organizzatori possano concentrare in un volumetto i vari discorsi, compresa una tavola rotonda finale diretta da Antonio Gnoli, che ci ha fatto tutti “straparlare”. Sarebbe però necessario che il corpo saggistico a stampa fosse integrato con un dischetto riportante le testimonianze di poesia orale. Quanto alle immagini verbo-visive, per queste c’è un catalogo, e la visibilità ne è garantita per alcuni mesi, negli ampi spazi del CAMEC.