Andrea Camilleri è consapevole del rischio che il suo enorme successo, tale da porlo quasi in permanenza al primo posto tra i romanzi italiani più venduti, resti affidato alle gloriose imprese di Montalbano, col loro carattere nazional-popolare. E dunque, tenta assaggi e incursioni in altri campi, in cui forse è da cercarsi il meglio della sua industriosa officina. Per esempio, nella “Scomparsa di Patò” sa montare un’abilissima inchiesta, senza cadavere, attorno all’ingegnosa fuga dell’eroe di quella storia per saltar fuori da una situazione che gli potrebbe diventare assai pericolosa. In calce a quanto vado a scrivere tra poco incollerò un caso analogo, una felice incursione che Camilleri compie nel passato della sua amata Sicilia, richiamandone una vicenda tra la storia e la leggenda, oltretutto quasi per intero affidata al dialetto che si parlava, e si parla tuttora da quelle parti. Questo mio convinto elogio, che magari sarei più cauto a riservargli per le vicende poliziesche pur premiate da un consenso unanime, vuole essere anche un piccolo risarcimento a un gesto magnanimo che Camilleri mi ha rivolto. Infatti, issato al più altro grado degli autori chiamati a rappresentare la sicilitudine, e dunque incaricato dal “Corriere della sera” di introdurre una serie di commedie pirandelliane date in allegato, ha rivolto a un piccolo e dimenticato personaggio come lo scrivente una menzione d’onore per un mio lontano titolo di benemerenza, l’aver ricordato che l’autore di Agrigento fu tra i primi a superare la “barriera del naturalismo”. Questa prova eccellente, “La rivoluzione della luna”, era stata da me lodata alla sua uscita, ma il brano positivo era rimasto tra le mie carte, e dunque ora sono ben lieto di proporlo. Mentre, ahimé, mi ero pronunciato duramente a proposito di “Il tutto mio”, uno dei più infelici tentativi del Nostro di prodursi in storie d’altra natura. Ora egli torna alla carica con “Noli me tangere” (Mondadori), dove a dire il vero non mancano di comparire le valide armi del giallista di razza, ma subordinate ad altri scopi, attente fra l’altro a evitare il passaggio obbligatorio per la presenza di un cadavere. Si conferma senza dubbio in lui il fine indagatore sulla psicologia umana, ma esentata, questa volta, dall’obbligo di giungere a un colpevole. O meglio, la “colpevole”, Laura Garaudo, in realtà è persona del tutto pregevole ed encomiabile in quanto si muove pro domo sua, inseguendo un ideale di perfezione finale. Anche in questo caso al centro della vicenda c’è una scomparsa, come quella di Patò, seppure in ben diverso ambiente. Là, eravamo immersi in uno sfondo campagnolo e provinciale, lo stesso in cui si muoveva l’eroe della vicenda. Laura invece viaggia ad alto livello, è sposata a tale Mattia Todini, dichiarato scrittore di chiara fama, ma debole, incapace di domare la compagna, cavalla pazza, donna disuguale, ad alti e bassi, per un verso ardente di vita, pronta a mille avventure sessuali, con una lunga serie di amori per lo più provvisori e di breve durata, che però non le impediscono di mantenere un certo affetto per il marito. Comunque, è lei il punto di riferimento centrale, il caso clinico da sottoporre ad analisi, per le sue discontinuità, per il fatto che talora ci appare fin troppo piena di vita, ma poi subentrano strani vuoti, cadute in uno stato di abulia, di disaffezione totale. In quei casi lei stessa si dice affetta da una sorta di ghibli. E poi la protagonista sparisce, il che consente a Camilleri di rientrare nel suoi panni soliti, affidando a un bravo e solerte commissario Maurizi il compito di calcare le orme di Montalbano. Ma questa volta non c’è perspicacia del detective che tenga, dovunque ci si ritrova davanti all’enigma. Laura se n’è andata con la sua auto, ma poi questa si ritrova sprofondata in un dirupo, senza il cadavere a bordo, e pare che sia stata la stessa guidatrice a spingervela. Quindi ancora salta fuori la sua borsa, ma in mare, sulla sponda dell’Adriatico, eppure neanche qui emerge un cadavere. Un’ indagine sul suo passato, di allieva modello in storia dell’arte all’Università di Bologna, porta a scoprire che nella tesi di laurea ha rivolto la sua attenzione in modo magistrale a un dipinto del Beato Angelico, il “Noli me tangere” che Cristo, appena risorto, intima alla Maddalena, desiderosa di ristabilire un contatto corporale con lui. Resta dubbio il significato da dare a quel motto riportato dal Vangelo di S. Giovanni, ma nel nostro caso esso vale a indicare alla perfezione uno dei due volti di Laura, per un verso pronta a darsi, anzi, a “sdarsi”, senza ritegno, ma per un altro presa da subitaneo disgusto verso il prossimo, chiusa in una corazza di estraneità. La soluzione è di carattere mistico, e dunque del tutto aliena rispetto alla facile e obbligatoria china del giallista patentato. Questo bisogno di purezza, di solitudine da parte dell’eroina la porta a seguire un santone, tale Wilson Seixto: come prendere i voti, entrare in convento. Per sua espressa ammissione Camilleri si dice influenzato dalla commedia più nota di Eliot, “Cocktail party”, però, in questa fase di buonismo, non lo segue nell’esito estremo, dato che là la protagonista, anche lei nauseata dai vili commerci con una Londra “á la page”, cerca il ritiro mistico, ma trovando la morte ad opera di una irruzione di selvaggi, qui invece non resta che lasciare la protagonista al paradiso terrestre che si è voluta concedere. Ma in definitiva il romanzo vive nella trama, pur esangue e intermittente, delle ricerche che muovono a ventaglio nel tentativo di dare una risposta alla misteriosa scomparsa. Forse era meglio che non ci fosse una conclusione e che la vicenda si perdesse nel nulla. Insomma, siamo in presenza di un’opera alquanto scucita, incerta, che non costituirebbe una valida alternativa al Camilleri più noto e popolare. E’ dunque opportuno da parte mia accludere qui di seguito un resoconto molto più positivio dell’altra storia.
Devo compiere un atto di riparazione nei confronti di Andrea Camilleri, che su un numero dell’”L’immaginazione” ho gratificato di un !pollice verso” approfittando di un suo momento di défaillance, fornito da una prova insolita e decisamente infelice quale Il tuttomio. Non mi pare di averla vista recensita da altri, più indulgenti di me verso un autore che resta comunque un eccellente campione nel filone della paraletteratura. Filone di grande importanza, anche se non gli si possono assegnare del tutto i galloni della serie A. Ma vi si trovano figure di grande peso come i giallisti di cui Camilleri è degno erede nel nostro Paese, tra cui, per esempio, Georges Simenon, pure lui, come il Nostro, capace di fare valide sortite fuori dalla comoda casella del poliziesco. Su questo fronte suscettibile di una buona accoglienza ora Camilleri ci ha dato un’operina perfetta, nei suoi limiti di favola ben costruita, dove tutti i dati, presenti altrove con qualche scompenso, vanno a posto, funzionano a meraviglia. Mi riferisco a La rivoluzione della luna (Sellerio), che potrebbe classificarsi come romanzo storico, ma anche qui conviene anteporre un “para” pronto a far deviare il tutto verso una dimensione di favola. Storia sì, ma estratta da un episodio oscuro di un Seicento siciliano, già di per sé epoca dai lineamenti cupi e malcerti. Pare, ma non se ne ha sicura testimonianza filologica, che tra un vicerè e l’altro inviato dal Re di Spagna si sia inserita la moglie del defunto Angel de Guzmàn, tale Donna Eleonora de Mora. La incerta esistenza del personaggio permette all’Autore di farne appunto un miracolo di bellezza, saggezza, giustizia, come vogliono le favole o le utopie, tanto, chi potrà intervenire a smentire? E’ proprio come un raggio di luna che si inserisce in una notte di grevi vicende, a illuminare una sicilitudine oppressa da ogni vizio e sopruso esercitato dai potenti ai danni dei deboli. Il fatto che la vicenda si iscriva in un ambito di atrocità e nequizie giustifica perfettamente il ricorso al dialetto. E’ giusto che i loschi figuri, che qui si agitano e ne fanno di tutti i colori, pur appartenendo in genere alla classe elevata, si esprimano in dialetto dalla prima parola all’ultima, col solo intervallo del perfetto castigliano messo in bocca a Donna Eleonora. In tutto questo c’è un vantaggio, rispetto alla dimensione linguistica delle inchieste del commissario Montalbano, dove il dialetto risulta come una enclave insinuata più che altro per farci divertire, ai danni dei soggetti inferiori che popolano le vicende. Qui il buio, anche linguistico, dei pupi che recitano spietatamente la loro storia domina sovrano, come una maschera che nessuno si toglie, né lo fa l’Autore per venire in aiuto alla nostra incompetenza. Il primo segno di questo microcosmo privo della luce della ragione viene proprio dal vicerè, che arriva a Palermo alto e smunto, ma poi si contagia per i veleni sprizzanti tutto attorno a lui, divenendo grasso e malaticcio oltremodo, fino a morire di pinguedine. I furbi membri del Sacro Regio Consiglio ne approfittano per continuare a inanellare provvedimenti, come se nulla fosse successo. Ma poi hanno la doccia fredda di apprendere che il viceré per testamento ha tramandato i poteri a quel virgulto di probità rappresentato dalla moglie, pronta a sostenere la lotta contro i reprobi e corrotti di ogni specie. Purtroppo, come succede nelle favole, le trame dei malfattori risultano attraenti e gustose, pur nella loro ignominia, come quella di trasformare un ospizio per fanciulle orfane e innocenti in un raffinato bordello cui i nobili accedono liberamente, e se per caso una di quelle fanciulle resta incinta, meglio sopprimerla, secondo le collaudate ricette delle storie conventuali. Infatti Camilleri, en passant, farcisce la sua vicenda con tutti i capitoli provenienti dalla tradizione del romanzo “nero”. Siamo a una rivisitazione del gotico inglese di fine Settecento, come risulta dal capofila dei malfattori e malversatori, il vescovo Turro de Mendoza, capace di ogni crimine, pedofilo incallito, astuto e indefesso accumulatore di denari. Quando poi viene ricattato da una sua vittima, finge di sottostare al ricatto ma, con un accolito, mette in atto una trappola sanguinosa che prevede la soppressione di colui che ha osato andargli contro. Il quale però si è cautelato rilasciando un atto di accusa a priori, nel caso che fosse scomparso e non rientrato a domicilio.
Tra le forze del bene e della luce, Donna Eleonora, e quelle del male, il vescovo di Palermo, si ingaggia una lotta a oltranza, con colpi di ingegno o di forza da una parte e dall’altra. Nella storia, ahimé, certamente prevalevano i cattivi, qui, in regime di favola, vince la forse mai esistita Donna Eleonora, che però viene richiamata in patria. Il tenue raggio di luna è di breve durata.