Sono sempre stato diffidente quando un personaggio diventato famoso a vario titolo, nella politica, negli affari, nello spettacolo, ha voluto aggiungere ai titoli di eccellenza già solidamente acquisiti anche la ciliegina sulla torta di una affermazione come romanziere. Un tempo, le persone di qualità cercavano di cingersi di un serto di alloro nella poesia, ma oggi questo genere di prestazione è del tutto decaduto, mentre quello di romanziere gode ancora di un buon favore. Ma succede che, andando a vedere, in molti casi ho dovuto ricredermi, e ammettere che qualche buona dote di narratore, nell’orbita di altre e più note prestazioni, un certo autore le dimostra. Tanto per fare alcuni esempi, questa presenza di un valore positivo l’ho dovuta riconoscere nel caso di un leader politico come Veltroni, di un regista famoso come Pupi Avati, e perfino di una superstar del rock come Ligabue. Ora è il turno di Alain Elkann, che sembrerebbe da evitare per la sua posizione di padre di tanto figlio, issato alla testa della enorme potenza della Fiat. Siamo senza dubbio in presenza di un protagonista dell’alta società, per cui l’insistenza a voler acquisire anche un riconoscimento letterario potrebbe essere una pretesa da non dargli per buona. Forse per questa ragione non avevo seguito la sua copiosa produzione precedente, ma sono stato già convinto dalla lunga conversazione intrattenuta con Alberto Moravia, il miglior documento per chi voglia penetrare nel mondo dell’autore degli “Indifferenti”, e infatti io me ne sono servito per una devota ricostruzione dell’ampia produzione moraviana affidata a un profilo che tra pochi giorni si potrà vedere in un mio ennesimo saggio presso Mursia, “I narratori della generazione di mezzo”, dove il nostro scrittore viene messo in compagnia di Sartre e Camus. Ma che dire ora di Elkann, e del suo ennesimo prodotto appena uscito, “Il fascista”? Ebbene, intanto vi si riscontra la medesima pulizia e limpidezza di scrittura già dimostrate dal giornalista culturale. Ovvero Elkann sembra deporre in anticamera tutte le prerogative del suo alto stato sociale, essere quasi consapevole del pregiudizio che potrebbe pesare su di lui, tentare di farselo perdonare muovendosi in punta di piedi. D’altra parte, e anche questa finisce per essere una qualità apprezzabile, non è neppure che si nasconda. Il protagonista di questo breve romanzo, tale Pierre Rosenthal, salta da un luogo mondano all’altro, viaggia per il lungo e per il largo, alla ricerca di storie di famiglia, di amori vicini e lontani. Il tutto affidato ad agili capitoletti, e anche questa è una nota positiva, egli rinuncia alle cronache massicce cui ci hanno abituato tanti narratori di successo di oggi, si pensi fra tutti alla mole di registrazioni accumulate dal vincitore dello Strega, Albinati. Elkann invece non si lascia impegolare nelle varie situazioni, intinte di buoni quarti di nobiltà o di opulenza alto-borghese, in cui entra, pronto a saltarne fuori, a correre verso una diversa meta, come un giocatore di base ball minacciato di squalifica se non si muove in fretta. E non entra in gioco neppure la tentazione del ricostruire un quadro politico, magari con annesse dichiarazioni di portata ideologica. In questo senso il “Fascista” del titolo è del tutto ingannevole, dato che il protagonista, Italo Veneziani, è in sostanza figura ambigua e sfuggente, simile alle cosiddette “revolving doors”, alle porte che girano sui cardani e si aprono a vari orizzonti, Non si sa bene se è omo o eterosessuale. E’ brutto, quasi orbo da un occhio, ma risulta pieno di sex appeal, tanto da avere avuto più mogli e amanti. Ambigua perfino la sua collocazione geografica, infatti è ospite in una villa, neanche dirlo, gestita da una nobildonna innamorata di lui, al confine tra Italia e Francia. Una sua “noblesse” di comportamento sembrerebbe indurlo a parteggiare per la Germania, nell’ultimo conflitto, e dunque, sarebbero stati i partigiani a sopprimerlo, nei giorni del finale tragico. No, contrordine, era un doppiogiochista, e dunque sono stati i Tedeschi ad averlo soppresso. Ma è morto davvero? Altra ipotesi dubbia, qualcuno dichiara di averlo incontrato, nell’appena nato Stato di Israele, poi addirittura in un eremo a Patmos, con approdo finale ad Arles, dove Italo, che però ora si fa chiamare Giorgio, continua a mietere cuori. Da questo cumulo di eventi si capisce che ì’eroe messo in campo da Elkann, Pierre, è trascinato in una affascinante “quête”, tale da ricordarci da vicino quanto sullo stesso piano riesce a fare un altro narratore anch’egli in definitiva da me “salvato”, Tullio Avoledo, rimando ai vari “pollici recti” che gli ho dedicato sull’”Immaginazione”. Solo che mentre Avoledo dilata, gonfia le sue storie oltre ogni limite, Elkann viceversa riduce, contrae. In fondo, si potrebbe dire che questo “Fascista” è appena il magro soggetto fornito per una esecuzione, televisiva o cinematografica, che sappia dare corpo a un copione fin troppo schematico. Ma in definitiva può essere proprio questa sobrietà a lasciarsi appezzare, questo saltabeccare da un capo all’altro di un vario e piacevole “gioco dell’oca” che ci tiene in sospeso fino all’ultimo, anche se in onclusione i conti tornano, i fili si intrecciano in una misura giusta e convincente
Alain Elkann, Il fascista, Bompiani, pp 92, euro 14.