La visita virtuale di oggi si rivolge al Museo Fabre di Montpellier che presenta una perfetta retrospettiva di un figlio di quella città, Frédéric Bazille, nato nel 1841, morto troppo presto nel 1870, sul fronte della guerra franco-prussiana. Eppure anche in un così ristretto arco di tempo gli era riuscito di agganciare la rivoluzione impressionista, prima ancora che il movimento venisse ufficialmente battezzato. Non solo, scopriamo che al pari di Gustave Caillebotte vi svolse un ruolo anti-Monet. Infatti il presunto capofila, dopo qualche primo dipinto degli anni ’60 in cui presentava figure abbastanza dense e sintetiche, ancora sull’onda dell’insegnamento dell’altra “M” fatale, di Manet, poi intraprendeva la via di una dissoluzione progressiva, abbandonando il tema di figura proprio per il fatto che le sagome e i volti umani pretendevano resistere al suo “cupio dissolvi”. Totalmente diversa, anzi, opposta, la strategia di Bazille, che dà il suo meglio proprio quando può affrontare dei corpi intenti a qualche esercizio somatico, si tratti di un bagno alla spiaggia, o solo in una modesta stanza di toilette. In ogni caso un suo motivo ricorrente è di rivestire le figure con abiti percorsi da strisce ben evidenti, tali da fasciarle, da sottolinearne una gonfia plasticità, nell’evidente proposito di preservarli da ogni rischio di corruzione. Così è in un dipinto come “Cathérine La Rose” o in una “Scena estiva”, E se non sono strisce, compare un punteggiato come nel suo capolavoro più noto, “Réunion de famille”, che però non vale certo per avviare le forme a una disgregazione, ma al contrario per puntellarle, per inchiodarle alla tela. Viene in mente, al confronto, il nostro Silvestro Lega, quando negli anni buoni anche lui, si pensi al “Canto dello stornello”, rassodava le immagini femminili. In un certo senso, Bazille salta la fase corruttrice dell’Impressionismo allo stato puro per consegnare una tipologia di corpi intatti, quasi eredi del neoclassicismo, alle ondate successive che si porranno proprio il compito di fermare l’emorragia monettiana e di riplasmare i corpi. Ma un processo del genere, si pensi a Gauguin, a Seurat, avverrà pur sempre nella rinuncia a una esibizione di volumetria compiaciuta e incontaminata, quale invece appare nelle tele di questo membro irregolare dell’équipe impressionista. Per cui a mio avviso egli giunge a consuonare con gli esiti ugualmente volumetrici, ma fuori di ogni regola, che troveremo in quel campione assoluto di fuga da ogni norma quale fu il Doganiere Rousseau, del resto suo quasi coetaneo. Anche nei paesaggi, che certo non costituivano il suo genere preferito, Bazille si presenta aspro e risentito, tutt’altro che morbido e diffuso, ancora una volta respingendo la ricetta di Monet e compagni. C’è per esempio una “Plage á Saint-Adresse” dove le onde, invece che spianarsi, magari raccogliendo qualche tardo suggerimento alla Corot, appaiono aspre, frastagliate, irritate da venti contrari. Ma questo è il carattere globale dell’arte di Bazille, barricarsi in forme chiuse, fiere di esibirsi in gonfie volumetrie, felicemente evidenziate da una policromia che a sua volta vuole marcare, fissare, contrastare, piuttosto che cedere a una morbida diffusione.