Da qualche tempo si è intrecciato un dialogo molto civile e rispettoso tra me e Alessandro Piperno, naturalmente a livelli imparagonabili. Lui, un narratore di prima classe con a suo vantaggio un Premio Campiello e uno Strega, abilitato a scrivere sul nostro più importante quotidiano, in particolare sul supplemento domenicale della “Lettura”. Io, quasi scomparso, ridotto a un esercizio solitario e invisibile. La “Lettura”, come la sua concorrente che esce su “Repubblica”, è un organo “cotonato”, fatto di articoli che riempiono lo spazio insistendo su argomenti di giornata, e concedendo ben poco spazio alla “letteratura”, a differenza di quanto faceva un antenato di mezzo secolo prima, il “Corriere letterario”, in cui io ebbi la ventura di fare le mie prime prove critiche. Ma gli articoli di Piperno rispettano gli antichi principi, infatti in tre puntate egli ha cercato di esaminare a fondo i maggiori narratori dell’Ottocento, Flaubert eTolstoj, con una puntata fino a Proust. Si è pure occupato, domenica scorsa, di Stendhal, così incrociandosi con quanto io stesso ho avuto modo di esaminare in un saggio, “La narrativa europea in età moderna”, Bompiani, 2010, ormai sul punto di scivolare verso il macero, come in genere succede a tutte le mie pubblicazioni. Ma con un sussulto di sopravvivenza mi permetto di incrociare le lame col più giovane e fortunato concorrente, che a parer mio, in un suo giudizio tutto sommato abbastanza severo e riduttivo proprio su Stendhal, non tiene conto di due fattori, cui invece io sono sempre stato molto sensibile, se non altro per la mia vecchia condizione di docente in ogni ordine di scuole, e prima ancora di diligente scolaro sui banchi di elementari e medie. Primo criterio: tenere conto delle date di nascita, secondo cui risulta che il Beyle anticipa (1783-1842) la nascita di Hugo e Balzac, e dunque è comprensibile un certo impaccio o minore efficacia da parte sua nel fornire prestazioni del tutto mature, come per esempio risulta se posto a confronto con Balzac (1799-1850). Ma si aggiunge un criterio ancor più decisivo, il rispetto di certe categorie storiche, come il moderno e il contemporaneo, in sé alquanto vacue, lo devo ammettere, ma che diventano forti e cogenti se abbinate a solidi criteri di cultura materiale, ovvero a fattori sociali, economici e perfino tecnologici. Ora, il moderno è il regno del trionfo dei valori materiali, della solida prassi. Io, nel volume menzionato, ho detto che gli autori in linea con quei tempi celebrano in ogni opera il trionfo dell’”homo oeconomicus”. Quello che conta è lo “struggle for life”, la conquista del successo, del benessere. Rispetto a un tale parametro, “vae victis”, ne saltano fuori appunto i “Vinti” secondo l’accorata constatazione del Verga, uno degli ultimi appartenenti a quel ciclo, che al suo culmine ha proprio Balzac. Ma c’è d’altra parte l’età contemporanea, che non del tutto a torto i manuali fanno iniziare alla fine del Settecento, data insignificante, se non la si abbina all’”alba” di una potente rivoluzione scientifico-tecnologica, l’avvento dell’elettromagnetismo, il che porta a scoprire che nel fondo della nostra esistenza psichica giacciono immensi depositi di energia pronti a scoppiare, di fronte ai quali impallidiscono le sacre regole dei valori economici. Nasce cioè un “homo epistemologicus”, molto più attento a coltivare la sua diversità rispetto ai concittadini che invece ignorano o, come poi dirà Freud, “rimuovono” quel pulsare recondito di energie, che sono eros-libido-immaginazione, o infine inconscio, per dirla con una parola sola. Ebbene, Stendhal è un apripista in questa direzione, i suoi eroi partono in resta contro i valori convenzionali, facendosi eredi del Werher goethiano, incerti se invece ispirarsi a Byron. Questo spiega il loro disprezzo quanto al tratteggiare scenari, spaccati sociali eccetera. Quel che conta, è intraprendere una lotta dichiarata proprio contro gli ideali che saranno poi al centro degli universi di Balzac, e anche di Tolstoj. Quest’ultimo fornisce un perfetto esempio di “integrato”, di conformista, basti pensare che la famiglia Rostov non permette che il primogenito sposi la cugina senza fortuna, per lui ci deve essere un vantaggioso partito. In “Guerra e pace” Tolstoj è generoso e salva Natascia, che rischia di fuggire di casa col primo bellimbusto, mentre non perdona una avventura analoga compiuta dalla più matura Anna Karenina e incrudelisce contro di lei, facendo proprie tutte le reprimende che le vengono scagliate contro dalla buona società. Poi un suo protagonista, all’altezza di “Resurrezione”, si pente, ma è tardi, non riesce a rimediare alle colpe che col tacito consenso dell’Autore, ha comnmesso in gioventù. Lo stesso Tolstoj si pente del suo stato di agiatezza, negli ultimi anni vive come un mugiko, ma io sono affezionato al “mio” Malaparte, uno dei “Capitani coraggiosi” cui, l’anno scorso, ho dedicato il solito volume, questa volta con Mursia, destinato anch’esso a sparire nel nulla, e con giubilo ho registrato una nota spietata di Curtino, che non so attraverso quale testimonianza dice proprio che Tolstoj, di giorno mangiava pane e beveva acqua come i suoi poveri contadini, ma di notte si rimpinzava di polli allo spiedo e sorseggiava champagne. Insomma, tra Stendhal da una parte, e Balzac e Tolstoj dall’altra, c’è di mezzo una vera diga, una barriera, dalla parte di qua magari ritroviamo Flaubert, che tiene alta la bandiera della rivolta del “contemporaneo”, e che capisce a fondo i drammi della sua Bovary, guardandosi bene dal condannarla, come invece Tolstoj non esita a fare verso la povera Karenina, del tutto vittima dell’etica borghese senza spiragli di “resurrezione”. Perché tali esiti compaiano, dovremo attendere che l’etica del contemporaneo si affermi in misura piena. Queste le categorie che un ex-professorino di scuola media si sente di applicare, spero non invano.