Non ho potuto partecipare all’incontro dello scorso 25 maggio in cui Gisella Vismara, instancabile sostenitrice delle fortune postume di Lucio Saffaro (1929-1998) ha presentato al pubblico il catalogo di tutti i dipinti dell’artista-matematico triestino, ma bolognese per residenza e luogo di attività, e dunque è giusto che io ora rechi questo mio contributo a posteriori. Senza dubbio militavamo su sponde opposte, in quanto lui è stato sempre un illuminato, scintillante, ispirato frequentatore di una pura “fabula de lineis et figuris”, che è quanto ci può essere di più distante dalla mia navigazione, sia come critico di lungo corso, sia anche, diciamolo pure, di pittore in proprio, seppure a singhiozzo. La “favola”, o comunque ogni manifestazione di racconto, di riferimento aneddotico, non mi ha mai trovato partecipe, soprattutto se questa viene affidata a un patrimonio di schemi geometrici, tra le due e le tre dimensioni. Ma è pur doveroso condurre un riconoscimento di tutto ciò che in partenza ci è estraneo, quasi come affacciarci a contemplare l’altra faccia della luna, tutto il continente che normalmente ci sfugge e che non frequentiamo. D’altra parte, come non riconoscere e ammirare la leggerezza, la disinvoltura con cui Saffaro si è sempre mosso in queste terre, che invece altri hanno percorso ma con passo pesante, e diciamolo pure, peccando per eccesso di meccanismi troppo compiaciuti? In queste parole dovrebbe trasparire tutta la mia avversità a chi pure è il cultore numero uno di questa faccia del visivo, Escher, con tutti i suoi trucchi illusionistici, ma appunto troppo pesanti, troppo definiti. Mentre Lucio si muove su questo palcoscenico, ma con una scioltezza deliziosa, e forse per trovare il filo conduttore della sua arte non c’è immagine più appropriata di quella che compare proprio nella copertina del catalogo, quel serpentello agile, sciolto, per nulla intimorito o incapsulato dalla fascia più austera delle bande cromatiche che gli fanno da sfondo. Saffaro, in sostanza, ha gettato fuori di bordo della sua navicella, della mongolfiera piena di vuoto, di gas nobili, quanto potesse sapere di zavorra, per imprimere alla navigazione del suo ingegno le mosse più libere, e magari anche, se si vuole, più ghiribizzose, assolutamente ignare di tutti i legami dei corpi solidi. Armato di forbici, egli ha ritagliato sagome come se fossero “ombre cinesi”, vacue, inconsistenti, e nello stesso tempo mobili, pronte a inanellare occhielli, o a guizzar via con curve, inversioni di rotta, angoli repentini. Anche per lui, come per tanti altri, avrebbe potuto venire un aiuto inestimabile se la videoarte avesse già raggiunto ai suoi tempi una prima maturità e gli avesse prestato le sue enormi possibilità. Sembra proprio che tutte quelle immagini guizzanti postulino l’arrivo del movimento, effettivo, e non solo virtuale, posto in atto sotto i nostri occhi, così da dar luogo a una danza irrefrenabile. Infine nel repertorio di Lucio ci fu anche la possibilità di affrontare una crescita, ma sempre nel nome di una leggerezza di fondo. Infatti tutta la sua attività, in sostanza, risulta divisa in due tempi, nel primo egli si è esercitato nella “flatness” più rigorosa, con figure rigorosamente piatte, deliziosamente sforbiciate, affidate a un discorso assolutamente binario. Ma poi ha innestato anche la terza dimensione, e dagli schemi piatti sono saltati fuori cubi, piramidi, poliedri a facce multiple, ma senza tradire l’impegno primo della agilità, o diciamo meglio, della virtualità, come se quegli spessori fossero pur sempre irreali, infatti ci danno la sensazione che basterebbe ben poco, una puntura di spillo, per sgonfiarli, come quando un palloncino troppo ingrossato scoppia e si riduce a un esile lacerto. Potremmo anche dire che a partire da un certo momento della sua attività Saffaro ha voluto drizzare come degli specchi, ma capovolgendo del tutto l’impostazione del celeberrimo “Ritratto di Dorian Gray” concepito da Oscar Wilde. Là, il ritratto, celato in una oscura soffitta, si carica gradualmente di tutte le brutture dell’esistenza e delle tracce del trascorrere degli anni. Negli specchi apprestati dal Nostro, invece, anche se ci affacciamo ad essi portandoci dietro la nostra carnalità, avviene il miracolo, ci viene restituita una immagine di estrema purezza, concepita nel magico linguaggio di una geometria pura, con cui si premia il contenuto mentale della nostra realtà, scartandone invece tutti gli aspetti di grossolana fisicità. Così avviene nei casi dei celebri ritratti dedicati a Cartesio, a Husserl e ad altri filosofi. Ma in sostanza è un aiuto offerto all’intera umanità, invitata a tuffarsi in una specie di Lete visivo, portatile, come uno specchietto tascabile o, diremmo oggi, come un cellulare pronto all’uso, a fornirci una compiacente menzogna attorno a noi stessi. In fondo, Saffaro avrebbe potuto ripetere i versi di Gozzano, “l’immagine di me voglio che sia/ sempre ventenne come in un ritratto”. Questa è la magia che la sua arte ha reso fissa, istituzionale.
Lucio Saffaro. Dipinti 1954-1997, a cura di Gisella Vismara. Bononia University Press, pp. 281, euro 45: