Confesso di essere stato indeciso fino all’ultimo se valesse la pena di scagliarmi ancora una volta contro Alfonso Berardinelli, prendendo spunto dal suo appena uscito “Discorso sul romanzo moderno”, Carocci editore. Lui segue i motti danteschi, e dunque verso di me rivolge uno sprezzante “ non ti curar (di lui) ma guarda e passa”, oppure, di fronte ai miei rimbrotti, “s’é beato e ciò non ode”, del resto ha il pieno consenso della maggioranza silenziosa, pardon, della stampa ed editoria che contano, ferme nel difendere i valori ovvi e risaputi, contro quegli intemerati che parteciparono al Gruppo 63 e dintorni e che ora, per la mia bocca e di pochi altri, osano rifiatare. Del resto, come è noto, io sono stato già ridotto al quasi totale silenzio, prova ne sia che avevo tentato di uscire proprio con l’editore Carocci, ma mi sono sentito respingere, nella certezza che per uno come me non c’è pubblico sufficiente, Laddove le prove di Belardinelli, anche se smunte, anche se giù uscite in versioni precedenti, sono sempre le benvenute, ci sarà un pubblico pronto a trovare conforto nel leggerle, nel vedere riaffermati tutti i valori in cui usa credere, in barba ai profanatori della neoavanguardia.
Vado a elencare i vari punti che in questo libello del vate del senso comune proprio non funzionano. Se Carocci avesse pubblicato la mia “Narrativa europea in età contemporanea” sarebbe bastato invitare il suo autore preferito a darle un’occhiata, anche molto “en passant”. Per esempio, anche uno scolaretto di vecchia scuola saprebbe che c’è una differenza sostanziale tra il moderno e il contemporaneo, e dunque non si possono mettere sullo stesso piano i campioni dell’una età e quelli dell’altra. Le cose vanno ancora bene finché si parla di Cervantes, siamo tutti pronti ad ammetterlo, quello è uno dei punti in cui si esce dall’universo medievale per entrare nel moderno, che si apre con Bacon, Galileo e Compagni. E anche Defoe, col suo Robinson Crusoe, è un eccellente campione apripista dell’avvento della borghesia, col suo orgoglio, la piena fiducia nei propri mezzi. Infatti il moderno è il ciclo perfetto dell’ascesa progressiva e trionfo dei valori della classe borghese, fino alla punta massima costituita da Balzac. Ma Goethe no, Belardinelli, che forse non l’ha mai letto, lo lasci perdere, in particolare non faccia “di ogni erba un fascio”, magari mettendo a braccetto lo scrittore tedesco col nostro Manzoni. Di mezzo, ci sta una precoce intuizione, attiva in Goethe, circa una presenza anzi tempo della rivoluzione freudiana. I quattro personaggi delle “Affinità elettive” sono sconvolti perché scoprono che nel loro foro interiore coltivano pulsioni erotiche oltre le convenienze legali e i sacri vincoli del matrimonio, quello è già un germe del contemporaneo, come infatti ho colto nel mio saggio, in cui, oltre a insistere sui classici campioni del contemporaneo quali Joyce e Proust, andavo proprio a scoprire una linea di validi precursori, quale appunto il Goethe del Werther e delle “Affinità elettive”. E non Manzoni, non Balzac, non Dickens eccetera, che invece nulla sapevano dell’esistenza in noi di un mondo sotterraneo con le sue pulsioni incognite, per loro esistevano solo le ragioni di una sana economia materiale. La monaca di Monza pativa semplicemente perché si vedeva impedita in quella libertà di movimenti che il codice borghese-illuminista avrebbe poi sancito, e se poi ha ceduto a tentazioni erotiche, non è tardata a venire la condanna di Manzoni, quella è una porta che deve rimanere sbarrata. Naturalmente Berardinelli non capisce niente neppure di Flaubert, altro antesignano delle ragioni del contemporaneo, con i suoi personaggi anti-balzacchiani che reagiscono all’imperversare, attorno a loro, dello “struggle for life”, all’imporsi dei fattori materiali, ritraendosi in angosciato ma risoluto distacco, fieri di dimostrarsi “inetti”, e così anticipando la categoria centrale, della inefficienza negli affari, che poi sarà imbracciata appieno dagli autentici campioni del contemporaneo, quali i nostri Svevo e Pirandello, quando giungerà la loro ora. Allo stesso modo è un imbrogliare le carte, non capire nulla, mettere nella stessa casella di questo confortevole moderno, come prospettiva eterna, solida e imperitura garanzia di ogni romanzo “ben fatto”, Tolstoj e Dostoevskij. Al solito, il primo era totalmente ignaro dell’esistenza di un volere profondo e delle sue pulsioni, mentre l’altro, come ben si sa, in un simile sottosuolo si spinse a fondo.
E’ poi addirittura incredibile, vergognoso, che venendo ai tempi giusti di un contemporaneo ormai in atto, cioè ai decenni iniziali del Novecento, il Nostro si permetta di condannare tranquillamente sia Joyce che Proust, quale un novello Lukàcs ritrovato nelle sue folli stroncature. In questo, egli va perfino oltre Cassola, che almeno, fino ai “Dubliners” dell’autore irlandese ci arrivava. Buon per lui che non si occupi di narrativa statunitense del Novecento, vedrebbe come la presenza joyciana è dilagante, inestirpabile. Quanto a Proust, è l’unico aspetto in cui gli posso dare ragione, forse è davvero l’unico dei grandi maestri a non aver potuto fare scuola, ma spero che proprio quella folla dei benpensanti che sostiene queste elucubrazioni gli si rivolti contro, dichiarando che l’autore della “Recherche” è un patrimonio che non si tocca. Quanto a Kafka, da lui discende addirittura una sindrome che trova esponenti in tanti seguaci. Infine, come unica possibilità di consenso, resta Svevo, con l’alto credito che Belardinelli gli concede. Ovvio trovarsi d’accordo, per uno come me che gli ha dedicato un saggio per porlo a capostipite di un’intera linea della nostra narrativa. Naturalmente, inutile cercare una noterella che nella bibliografia di questo “fast essay” sia dedicata a quel mio contributo, dei critici inesistenti non è il caso di preoccuparsi.
Alfonso Berardinelli. Discorso sul romanzo moderno, Carocci, pp. 115, euro 13.