Nella mia attività critica mi vanto di aver sempre prestato una “lunga fedeltà” ad artisti e scrittori con cui mi sono sentito in sintonia, usando verso di loro la felice formula inventata da Gianfranco Contini nei confronti di Carlo Emilia Gadda, a cui, viceversa, ho sempre rivolto una “lunga infedeltà”. Ma ritornando alla faccia positiva della formula, essa vale, fra l’altro, nei confronti dei Nuovi Futuristi (Bonfiglio, Brevi, Crosa, Innocente, Lodola, Luraschi, Palmieri, Plumcake, Umberto Postal), nati negli anni ’80, quando si scavalcò il clima del citazionismo nostalgico riprendendo a marciare in avanti e adattando le formule delle neoavanguardie nate a ridosso del ’68 al clima del consumismo sfrenato di quella nuova fin-de-siècle. Ho sempre precisato, nel rivolgere il mio consenso a quel gruppo, che il loro legame col Futurismo storico si poteva scorgere solo rivolgendosi alla svolta impressa al grande movimento dalla coppia Balla-Depero, che ne aveva fatto un avamposto del postmoderno, ben comprendendo come l’urbanesimo non dovesse svolgersi nel clima arido e asettico del Bauhaus, bensì in un recupero di valori decorativi e cromatici più confortevoli. Tra questi nipotini di Depero, che mi vanto di aver portato a esporre proprio nella Casa madre dell’artista, a Rovereto, un posto di spicco è sempre spettato a Gianantonio Abate, che come gli altri ha sempre marciato accettando un postulato di partenza, di dover fare un’arte tridimensionale, superando la pura e semplice superficie dipinta, però senza spingersi troppo in profondità, bensì viaggiando a un pelo di distanza dalle superfici-pareti. Si pensi al caso ben noto di Marco Lodola. Abate ci ha presentato a lungo come delle piattaforme su cui operare innesti, andare a piantare germi capaci di sviluppare organismi “geneticamente modificati”, strane piante e vegetali dove vari regni si ibridavano: quello dei prodotti naturali, di altri puri prodotti di serra, di altri ancora rubati da universi extragalattici i cui germi fossero piovuti dalle stelle tra di noi. Da qualche anno Abate ha operato una svolta, ora felicemente documentata da una coraggiosa Galleria, la Ierimonti di Carla Piscitelli, che da una sede lungamente tenuta a Milano con balzo audace è andata a impiantarsi a New York, in piena midtown, appena a un piano di sopra rispetto alla storica Marion Goodman. Poco prima, la Ierimonti ha reso un omaggio a Salvo, e a prima vista potrebbe sembrare che Abate, nella sua svolta, ne abbia adottato l’adesione a una pittura tutta svolta in superficie, a sfruttare in pieno il fascino di un colorismo allo stato puro. E certo, una parentela, o una discendenza, sono innegabili, ma con gli opportuni adattamenti, per cui le due strade ritrovano alla fine ciascuna un giusto margine di differenza. Il colorismo di Salvo è estatico, se sfida il cattivo gusto, lo fa con la convinzione di riuscire a domarlo, di ritrovare una sorta di paradiso terrestre, di giardino di meraviglie e incanti primari, quasi di sapore angelico. Abate invece non dimentica certo di avere alle spalle cumuli di paccottiglia, di immagini dozzinali, quelle stesse che un artista di prima classe quale Haim Steinbach va a scegliere con tanta cura nei magazzini del consumismo per poi allinearle su scaffali, in scapricciate e contrastanti sequenze. Abate procede allo stesso modo, a una selezione capziosa, del tutto incurante dei rischi del cattivo gusto, ma accetta poi la riduzione in piano, gli oggetti eterocliti vengono schiacciati, e affidati appunto a un colorismo volutamente carico ed esagerato, da cartone animato. Se compaiono degli aeroplanini, sono evidentemente rubati ai giochi di qualche ben attrezzato kinderheim, e le scie ignee o fumose che tracciano in caduta libera assomigliano in realtà a rami di corallo, sottratti a qualche vetrinetta. I lupi che rivolgono i musi aguzzi verso quegli strani corpi cadenti dal cielo fanno ricordare l’apologo della volpe che invano tenta di raggiungere l’uva acerba, e comunque sembrano modellati nel biscuit, in qualche materiale plastico nobile, ma nello stesso tempo decaduto a livello di ciondolo, di cianfrusaglie. Si pensa alla bigiotteria con cui i primi esploratori dell’America incantavano i selvaggi conquistandone la fiducia. Ora noi stessi siamo quei selvaggi, pronti a cedere al fascino di una paccottiglia, purché sofisticata, a venire conquistati da quell’incanto e scintillio cromatico. In fondo, a questo modo Abate resta fedele alla linea dominante del gruppo, che ha sempre trovato un nome-simbolo nei Plumcake, pronti a ingigantire i ciondoli-premio inseriti in merendine e in altri dolcetti di poco prezzo, da portare a dimensioni gigante, monumentali. Solo che ora Abate rinuncia al rilievo plastico per svolgere una pura “fabula de lineis et figuris”, cercando che l’intensità dei colori sia di compenso alla perdita di rilievo. Del resto, il bambino, o scolaretto astuto-ingenuo che presiede all’intera operazione viene effigiato in uno di questi “cartoni”, e compare pure un Napoleone come tema di studio, disceso al livello di una figurina Panini, di quelle da collezionare. Ma ora è l’intero universo che, nell’abile trattamento del nostro Abate, si cala in questa dimensione di favola per la nostra umanità, tanto esperta e rotta a ogni insegnamento, ma anche tanto regredita a uno stato di disarmata innocenza.