Attualità

Domenicale 21-2-16

Il domenicale, questa volta, non può che essere rivolto a un compianto della grande figura di Eco. Siccome me ne è stato chiesto uno in sede cartacea dall’”Unità”, non sto a stenderne uno più personalizzato, anche se verrà l’ora di procedere in questo senso. In fondo, si possono riferire a Eco gli straordinari versi che Manzoni seppe rivolgere a Napoleone, ma senza dimenticare la dubbiosa appendice, in cui Don Lisander si chiedeva se si era trattato di “vera gloria”. Si dovranno cioè introdurre i distinguo tra meriti indubbi dell’Umberto nazionale e internazionale, e invece i cedimenti allo spirito dei tempi, con la propensione ad accarezzarli qualche volta un po’ troppo per il verso giusto.
La scomparsa di Umberto Eco mi fa pronunciare una formula forse un po’ abusata, ma che in questo caso ritrova tutta la sua forza il suo drammatico impatto, ovvero con lui muoiono un poco tutti quelli che gli sono stati a fianco in fasi decisive della sua carriera. Con lui viene meno una specie di fratello maggiore, che attento, generoso, inclusivo aveva dominato i nostri tentativi di “cambiare il verso”, di rivoltare il quadro di come stavano le cose, a metà degli anni Cinquanta e oltre, nell’ambito delle tendenze letterarie, artistiche, culturali in genere. Purtroppo una sinistra, con cui noi tutti non potevamo mancare di solidarizzare, aveva però imboccato una via di sterile ortodossia, impegolandosi in un cattivo realismo che pretendeva di essere speculare a una realtà identificata soprattutto negli scontri di classe, ovvero, per dirla con un altro spirito libero, predecessore di Umberto, con Vittorini, si pretendeva che gli intellettuali “suonassero il piffero alla rivoluzione”, da passivi corifei. Contro questa impostazione era sorta con grande efficacia la rivista “il Verri” di Luciano Anceschi, eccellente talent scout che infatti chiamò a raccolta attorno a sé i poeti Novissimi, Sanguineti, Giuliani, Pagliarani, Balestrirni, Porta, fiutando subito anche la statura eccezionale di Umberto, e accomunandolo nell’impresa, che nel giro di un decennio avrebbe portato alla costituzione del Gruppo 63 e della neo-avanguardia italiana, in stretta sintonia con i tanti movimenti affini dell’intero mondo occidentale. Eco veniva da una storia un po’ diversa, ma, con la sua larghezza di mente apprestò subito l’ampio fronte in cui tutti ci saremmo riconosciuti, ovvero comprese che era tempo di “aprire”, una parola d’ordine attorno a cui costituì un vero e proprio manifesto per la nostra militanza, “Opera aperta”, dimostrando che arte, musica, letteratura, lungi dallo svolgere un compito sussidiario, dovevano sentirsi in prima linea nell’imporre i nuovi valori, anche quelli provenienti dalla scienza e dalla tecnologia. Dall’altra parte c’era la vecchia intellettualità inizialmente alquanto imbarazzata e riluttante ad accettarci, arroccata alle pagine del “Menabò”, dove Vittorini, confermando il suo impulso “aperturista”, era pronto al dialogo, mentre un Calvino al momento più fermo sulla difensiva paventava proprio quei nostri attacchi, denunciando i pericoli di un nostro preteso arrenderci al “mare dell’oggettivit°”, quando invece si trattava di cogliere l’accesso di nuovi oggetti e soggetti affluenti da tutti gli angoli dell’esperienza. Ci fu un “Menabò” che funzionò come terreno di scontro, quasi un duello sul tipo degli Orazi e Curiazi, dove, neanche dirlo, proprio Umberto capitanava la nostra squadra, dimostrando in modo impeccabile che il modo di formare, cioè le scelte stilistiche, non sono un cedere a un vano rituale formalistico, come pretendeva chi ci voleva ostacolare, ma si ingranano direttamente sulla realtà, si muovono all’unisono coi suoi traguardi più avanzati. Oltre a condurre questa azione con rigore e coraggio, Eco sapeva anche condirla con un naturale buon senso, con una scrittura limpida, che faceva di lui, come più volte è stato detto, un erede del prezioso illuminismo di specie lombarda. Si aggiunga anche la capacità di condire il tutto con l’arguzia, l’ironia, la battuta pronta, lo sfottò, come appariva dalla sua collaborazione al “Verri”, cui affidava le pagine del “Diario minimo”. Difficile impegnare uno scontro dialettico con Umberto, dato che era sempre pronto a spiazzare l’avversario con una qualche battuta di irresistibile comicità.
E così, per l’intera durata dell’esperienza del Gruppo 63, fino allo scioglimento nel ’69, egli fu là, a dirigere, comprendere, mediare, forse anche diffidando di certi estremismi nella scrittura che recavano offesa al suo istintivo bisogno di “andare in chiaro.
Che però ci fosse in lui qualche riserva rispetto allo scrivere difficile e stretto di molti dei suoi compagni di strada, risultò quando pensò di scendere lui stesso in campo, ma in definitiva deciso a valorizzare quanto era nei nostri intenti, di far nascere un’arte, una letteratura che accettassero i portati dei tempi, i mass media, senza fare gli asfittici “apocalittici” nei loro confronti, ma cercando di conciliare la facilità del prodotto con una capacità di dare ai vari materiali un diverso montaggio. E apparve così “Il nome della rosa” che, bisogna ammetterlo, prese molti di noi in contropiede. E’ vero che, avendo già riscontrato, soprattutto in un secondo incontro a Palermo, nel ’65, che una narrativa troppo estremista rischiava l’illeggibilità, avevamo di nuovo invocato la strategia di “cambiare il verso”, di andare a vedere se si poteva ricavare qualcosa di buono dal passato e dalla tradizione. Sarebbe nata infatti la stagione del “citazionismo”, della riscrittura, e fu proprio Eco a cavalcare quella situazione, a trarne frutti abbondantissimi. Ovvero, il praticare le “forme chiuse” gli fu più profittevole di quando esaltava, ma da teorico, il ricorso all’”aperto”. Tanto che alcuni di noi non gradirono del tutto quella sua comparsa nelle vesti di un affabulatore fin troppo abile e scorrevole, pronto a valersi di tutti i perfetti meccanismi del passato, da Jules Verne ad Agata Christie. Pure a livello teorico si era tuffato in un’impresa, quella della semiotica, che anch’essa sembrava a sua volta “chiudere”, dettare codici troppo stringenti alle varie pratiche culturali. Io stesso, suo ardente compagno di via e portabandiera in tutta la fase precedente, ebbi a esprimere qualche dubbio sia sul narratore troppo godibile, sia sul sostenitore dei sentieri troppo stetti dei segni e dei loro derivati. In fondo, avrei voluto che si ricordasse di più della sua capacità di aggredire l’attualità, e di condirla con i frutti di una comicità istintiva, sgorgante come un fiume sorgivo. E proprio l’ultima sua comparsa, con “Numero zero”, mi aveva confortato, mi era sembrato che avessimo finalmente un narratore giustamente boccaccesco, pronto a inseguire il presente più inquieto e a farsene beffe. Insomma, rinasceva la speranza di avere sempre con noi il fratello maggiore, la guida sicura e insostituibile, al di là dei giri di valzer che per la sua incontenibile potenza intellettuale gli accadeva di compiere. Ricordo con infinita tristezza un colloquio telefonico di pochi giorni fa con la moglie Renate, per strappargli la partecipazione al ricordo di un convegno del Gruppo 63 che si era tenuto alla Spezia, nel 66, e dunque a mezzo secolo di distanza. Lui non ci sarà, ma i superstiti gli appresteranno un solenne banchetto funebre, o meglio, cercheranno di mettersi in contatto devotamente col suo spirito sempre vivente.

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