Nel 2005 ho fatto una mostra di cui sono molto fiero, era il bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini e dunque ho pensato di dedicargli un omaggio attraverso la sua migliore creazione, “La giovine Italia”, ricordata però non già con un convegno di studiosi, bensì con un raduno dei nostri migliori artisti in campo, allora, esposti in due sedi, a Bologna, Pinacoteca nazionale, e a Gambettola, alla Fabbrica, gestita dal mio partner in tante iniziative, Angelo Grassi, il tutto con catalogo Mazzotta. In quella schiera di artisti nostri di sicuro talento figuravano, tra gli altri, Gianni Caravaggio, Loris Cecchini, Claudia Losi, Perino & Vele, Gabriele Picco, Alessandro Roma, Sissi, artisti cui anche in seguito ho sempre fatto giungere una mia convinta adesione. Fra loro c’era anche Enrica Borghi, che ora posso ricordare per una sua apparizione all’estero, in una galleria di Parigi, dedicandole questi appunti di un diario semi-privato, in attesa di poterle rivolgere una recensione in formato cartaceo. Di Enrica si può dire che è un Re, anzi, una Regina Mida dei nostri giorni, capace di trasformare in oro quanto prende tra le sue mani. La formula prevede che ci sia una vistosa metamorfosi tra il basso valore della materia di partenza e la luminosa consistenza finale. Al giorno d’oggi non c’è nulla di più volgare-degradato di quanto viene detto “trash”, che però a sua volta è l’abbassamento dei mille prodotti industriali che ci circondano, con le loro confezioni rutilanti di colori, e affidate a morbide materie plastiche. Non per nulla la mostra parigina della nostra Borghi si richiama al “Déchet”, al rifiuto, al cascame, e sappiamo quanto questa mole di prodotti di scarto rischi di assediarci, urge trovare forme di riciclaggio, di riuso. A questo nella politica urbana provvedono gli inceneritori, da cui riusciamo anche a ricavare energie alternative, e in fondo un compito nobile dell’arte di oggi sta proprio nel condurre questa medesima operazione a scopo salvifico. Nessuno lo fa meglio di Enrica, che per esempio va alla ricerca di bottigliette di bevande o di contenitori plastici di ogni tipo, per intessere con questi, per esempio, un velo da sposa, oppure le stringe ricavandone come delle palle di neve, e in tal caso occorre anche un sapiente intervento chiaroscurale per farne emergere il biancore. Alla mostra sopra ricordata, con i “culi” di bibite e altro materiale di scarto aveva composto un magnifico rosone, degno dello splendore di antiche cattedrali romaniche, o di un recuperato ricorso al mosaico, ma condotto a grana grossa: non più minute tessere, bensì elementi corposi, gonfie e panciute gemme di nuovo conio, sempre sfruttando il ribaltamento dal vile all’elegante e prezioso. Ma beninteso lo spazio chiuso di una galleria sta sempre stretto, all’esuberanza della nostra artista, e dunque ogni sua apparizione deve anche essere confortata dalla proiezione di immagini relative a installazioni reali, effettuate su vasta scala. Tra queste conviene segnalare con la massima energia una particolarmente felice, avvenuta nel cuore di Trieste, in uno di quei bacini che penetrano nel corpo della città, dove aveva fatto galleggiare dei “Fiori di luna”, degli isolotti emersi dal mare, o addirittura delle ninfee, nascenti proprio dallo stesso inquinamento che non può non affliggere oggi degli specchi d’acqua posti in presenza di centri civici. Claude Monet, le sue ninfee, in attesa di dipingerle, doveva seminarle e farle crescere nel bacino della sua proprietà di campagna, la nostra Borghi, in definitiva più fortunata, può saltare questo passaggio, limitarsi a far affiorare questi banchi di degrado, di fiori del mare o della polluzione, che però, così raccolti in mazzo policromo, ritrovano uno splendore non indegno di quello di cui è capace madre natura. Ma lo sappiamo, ce lo ha anche insegnato Piero Gilardi con le sue gomme piume “più vere del vero”, abbiamo saputo strappare alla natura i suoi segreti, ora la emuliamo con totale felicità, ovvero spingiamo i nostri poveri prodotti artificiali-tecnologici a ritrovarne i freschi umori. E non abbiamo neppure più il bisogno di sottostare ai tempi lunghi della rappresentazione pittorica, sostituiti dagli scatti dei cellulari, capaci anche di dotare quelle immagini del bene prezioso del movimento.
Enrica Borghi, Déchet, Galérie 121, 121 rue Vieille du Temple. Paris, fino al 26 febbraio.