Anche oggi mi valgo della facoltà, già più volte affermata, di includere nella narrativa anche il cinema. L’ho fatto la settima scorsa abbozzando un’analisi dell’ultimo film di Spielberg, “Il ponte delle spie”, riconoscendovi il ritorno del regista alle sue migliori performances degli inizi di carriera. Ora invece devo svolgere un discorso inverso a proposito dell’ultimo prodotto di Woody Allen, “The Irrational Man”, e non tanto per un calo delle sue virtù di comico-satirico sottile, come purtroppo si è manifestato nelle recenti puntate dedicate a Parigi e a Roma, ma per qualcosa di più grave, per la sua tentazione di uscir fuori dal genere comico e di mirare a effetti ritenuti superiori, sfiorando la tragedia, o comunque il dramma cupo. Scatta in proposito il proverbiale “sutor ne ultra crepidam”. Caro Allen, non ambire a titoli di alta cultura che non ti si addicono o che ti portano a effetti di riporto. In questo film è sbagliata subito in partenza la scelta del protagonista, affidata a Joaquin Phoenix, che non ha per nulla l’aria del fine intellettuale, del docente fascinoso per doti sottili, tali da far invaghire di sé le allieve incontrate nei collages universitari in cui è chiamato a svolgere la sua attività di docente. E’ invece un attore che andrebbe bene nella parte del “macho”, del personaggio muscoloso, da campione di qualche sport fondato sulla prestanza fisica, rugby o base-ball, proprio non gli riesce il ruolo che pure il regista vorrebbe cucirgli addosso, di irresistibile rubacuori nei confronti delle giovani studentesse. Anche perché la dottrina che gli è messa in bocca risulta d’accatto, una cucitura di alcuni dei campioni di pensiero più alla moda, ma sciorinati come in una pretenziosa e alquanto dilettantesca vetrina che Allen si affretta a mettere in bocca di questo suo rappresentante delegato. Fra l’altro, proprio a riscontro della vigoria animalesca con cui si presenta, non si addice lo stato di crisi in cui ci appare immerso, a meno che questa non sia un’arma in più per attirare a sé i fragili cuori delle fanciulle che lo circondano, tra cui domina in primo piano la troppo virtuosa e ingenua figura affidata a Emma Stone. Il nocciolo della trama sta in una conversazione udita al bar quasi per sbaglio, dove una povera madre del tavolo accanto si lamenta di un giudice maligno che sicuramente si accinge a negarle l’affidamento del figlio, a seguito del divorzio dal marito. Da qui il proponimento del protagonista di uscire dal suo stato di crisi, collegato anche a impotenza sessuale, rendendosi utile alla causa dell’umanità andando a uccidere il giudice duro e inflessibile. Il modello è quello di un Raskolnikov dostoevskiano, ma fuso con uno spunto ben diverso scaturente dalla tradizione del genere poliziesco. Questo ci dice che un modo sicuro per compiere i delitti sta nel cercare le vittime tra persone del tutto scollegate alle vicende personali dell’assassino. Hitchcok in proposito insegna, e senza pudore Woody si ispira a questo capostipite, con la variante che i delinquenti immaginati dal grande regista del thrilling sono mossi dall’interesse, seppure giocato incrociando le rispettive velleità, coloro che firmano il “pactum seleris” andranno a far fuori uno sconosciuto, rimanendo insospettabili proprio per una simile carenze di motivazioni. C’è senza dubbio qualche abilità, appunto alla Hitchcock, nel modo secondo cui il nostro falso eroe concepisce ed esegue l’avvelenamento del povero giudice, ma poi si ricade nel ben noto e consolante copione, non si speri di farla franca, anche se si va a colpire un obiettivo in apparenza immotivato la verità si fa avanti, e stringe il cappio attorno al colpevole, soprattutto mettendo sull’avviso e avvicinando alla soluzione dell’enigma proprio la fanciulla che sta più vicino allo spregiudicato assassino. A questo punto Allen ricalca un copione di cui si è già valso al momento di girare “Match Point”, nel 2005, ma con due grossi svantaggi, rispetto a quella prova precedente. Allora, il protagonista era mosso fino in fondo da un calcolo di interesse, doveva eliminare l’amante, impersonata da una forte e sensuale Scarlett Johanson, che si frapponeva fra lui e il matrimonio con una fanciulla benestante. Il regista, allora, si attenne fino in fondo alla regola di un cinismo ributtante, scartando coraggiosamente la soluzione confortevole: il delitto riesce alla perfezione, e il turpe assassino sfugge ad ogni responsabilità, la fa franca. Qui invece Woody decide di rispettare un comune sentimento di giustizia e di non lasciare impunito il colpevole, quando invece, data la motivazione del tutto disinteressata che lo aveva portato all’omicidio, sarebbe stato più giusto che seguisse fino in fondo ul modello Raskolnikv accettando l’espiazione. L’”irrational man”, che qui al contrario diviene fin troppo razionale calcolatore, difende con le unghie la sua minacciata impunità, decide di disfarsi della nobile e ingenua fanciulla, che ormai ha subodorato la soluzione del caso atroce e la colpa del compagno, tenta di sbarazzarsene gettandola nella tromba dell’ascensore. Ma il caso gioca contro di lui, una alquanto inverosimile piroetta fa sì che a precipitare nel vuoto sia egli stesso, vittima del suo intrigo, così scomparendo in modo ignominioso, perdendo la scommessa su tutti i fronti, né nobiltà d’animo alla maniera del personaggio dostoevskiano, né abilità di mosse da malfattore pronto nei riflessi. Come invece era stato con più coerenza ed esito più convincente il suo predecessore nell’altra vicenda, del tutto privo di motivazioni di alto bordo e ben più attento a realizzare il proposito omicida.