Su mia richiesta ho ricevuto dall’Editore Fazi “La sumera” di Valentino Zeichen, presentato come sua “unica opera narrativa”. Leggo però, in un’acida recensione stesa da Andrea Cortellessa su “Tuttolibri” di ieri 12 dicembre 2015, l’avvertenza che invece qualcosa di assai simile Zeichen lo aveva già fatto uscire col titolo di “Tana per tutti”. Ma il dato è abbastanza superfluo, non conta la cronologia interna nell’attività di Zeichen, conta piuttosto il riconoscimento che, prima o poi, era inevitabile che la sua poesia si estendesse nella dimensione, se non della narrativa, almeno della prosa, tanta è da sempre la furia dissacrante che questo esercizio poetico nutre in se stesso, deciso a contestare ogni possibile aspetto di facile lirismo. Quella di Zeichen è una “poesia in pubblico”, al modo che Vittorini aveva chiamato le sue memorie “Diario in pubblico”. E proprio questo impulso a una perenne autocontestazione mi sembra allontanare decisamente il nostro autore dai lidi della destra, cui invece Cortellessa nella sua acrimoniosa lettura pretende legarlo. Se così fosse, come si spiegherebbe che il suo recente Oscar Mondadori dedicato alle “Poesie” da lui stese in un lungo arco di tempo, 1963-2014, è stato prefato da Giulio Ferroni? Mi pare che anche lui, come me, siede sui banchi della sinistra.
Ma senza stare a indagare oltre su eventuali risvolti politici, mi pare essere di sinistra l’ansia profanatrice da cui Zeichen è costantemente sorretto, mi basta pensare alla prima occasione di incontro con lui. Era il 1978, e lo avevo invitato a una delle mie “Settimane internazionali della performance”, animate dai poeti sonori sul tipo di Arrigo Lora Totino, Henri Chopin, Bernard Heidsieck, ma avevo voluto inserire anche alcuni poeti “lineari”, dato che in quel momento erano anche loro persuasi di dover accedere a una dimensione performativa-spettacolare. E il nostro Valentino si era presentato in scena sedendosi in un canotto gonfiabile, di quelli da escursione su mari domestici, da cui però ostentava la pensosa attitudine del poeta declamante. Del resto, che l’intera sua musa sia dominata da questa continua ansia ossimorica di far cozzare gli estremi, lo si ricava, “ad apertura di pagina”, come si dice in questi casi, da vari brani che si possono cogliere qua e là nell’Oscar Mondadori, come quando dichiara di essere dedito a una “musa podologica”, o di oscillare “fra Petarca e Rabelais, tra l’angelo e Pantagruele”. Oserei pure aggiungere che il lato rabelaisiano è decisamente prevalente su quello angelico. Leggo anche, e mi chiedo come tutto ciò possa rientrare in una ideologia di destra: “scoppierà la guerra/ e noi ci arruoleremo / nei soldatini di piombo / dietro l’ampia vetrina / d’una antica cartoleria”, versetti che sarebbero da declamare contro quanti, decisamente destrorsi, oggi ci chiamano alla crociata anti-islamica.
Insomma, lo abbia già fatto nel passato o vi sia arrivato soltanto ai nostri giorni con “La sumera”, sta di fatto che Zeichen “doveva” praticare uno spazio unico di percorrenza dalla poesia alla prosa, magari secondo la forma già canonizzata del “poemetto in prosa”, o addirittura secondo la formula sperimentale cara a Marco Giovenale e compagni della “prosa in prosa”, che vale a superare ancor più gli ultimi retaggi di un lirismo facile e sommesso. Siamo così in presenza di questo prodotto che si vuole iscrivere nelle acque territoriali della narrativa. In termini tecnico-retorici, potremmo dire che dalla scrittura breve, dalla brachilogia, che è uno dei tratti congeniti della poesia, passiamo alla macrologia, all’”oratio soluta” e continuativa. Ma l’impasto è sempre della medesima natura, i tre protagonisti, a nome Paolo, Mario e Ivo, per un verso, come l’autore, coltivano le buone maniere e frequentano musei, gallerie d’arte, il primo addirittura nel ruolo di artista in proprio, ben ferrato delle vicende passate e presenti del suo mestiere, e anche gli altri due gli stanno alla pari. Ma sulla loro dimensione di “teste d’uovo” l’autore è pronto a riversare tonnellate di fango, di sconcezze, di materialismi di ogni tipo, fomentati dalla circostanza inevitabile che i nostri tre moschettieri hanno incontri casuali con donne procaci e avvenenti. Ne seguono approcci erotici, risolti pur sempre attraverso l’incrocio tra professioni di alto voltaggio e invece l’inserimento di dettagli bassi, addirittura ripugnanti. Il versante Rabelais è sempre pronto a imporsi, ma ci sta pure un richiamo a certi ben noti poemetti, dalla “Secchia rapita” del Tassoni al Pope del “Rape of the Lock”, e beninteso anche Gadda esercita un forte influsso su questo “navigar pittoresco”. O se si vuole, si può fare un passo indietro, ritornare al continente poesia, pur di pescare pur sempre nell’ambito di chi l’ha presa a schiaffoni. Penso ai Metafisici inglesi, a John Donne che loda la zanzara in quanto, avendo punto prima lui poi la sua donna, ha realizzato in se stessa la congiunzione del loro sangue, in un coito fortuito. Insomma, è la strategia di innalzare il gratuito, il banale a vette eccelse, o viceversa di evitare subito il rischio di voli pindarici con pronti tuffi nello sterco. Di nuovo ad apertura di pagina trovo in questo pseudo-romanzo straordinarie sequenze metafisiche, alla maniera di Donne, quando per esempio, a indicare che scoccano all’orologio le ore 4,20, viene detto che “… le lancette amoreggiavano sovrapposte sul numero quattro… il giorno mugolava lamentoso, senza punteggiatura”. O l’incidente in cui a noi tutti è capitato di incorrere perché qualcuno non ha chiuso bene il cancello dell’ascensore provoca lo spietato atto d’accusa al “distratto sabotatore che aveva trascurato di accostare le ante retrostanti il cancello di ferro”. E così via, ogni episodio viene gonfiato, ma poi si inserisce una punta provocatoria a sgonfiarlo, proprio come poteva capitare al canotto su cui tanto tempo fa Zeichen aveva fatto bella mostra di sé.
Si potrà muovere a un simile esito la prevedibile critica ispirata dai tradizionali criteri narratologici: i tre personaggi non hanno consistenza, vivono solo nelle battute che pronunciano, nell’abilità di imporre a quanto gli capita un incredibile processo di dilatazione. Ma sappiamo bene che oggi più che mai i confini tra il polo della poesia e quello della narrativa sono incerti. In fondo, come per i viaggi Schengen, le frontiere sono state abbattute, ed è giusto che Zeichen ne approfitti. Oppure, se proprio si vuole essere malevoli, gli si potrebbe rinfacciare la famosa battuta con cui si castiga il vacuo splendore delle modelle: “Sotto il vestito nulla”. Ma se il vestito, come in questo caso, è un prezioso broccato, un manto lussuoso, straordinariamente variegato di fibre e colori, non possiamo dichiararci soddisfatti?
Valentino Zeichen, La sumera, Fazi Editore, pp. 155, euro 16.