Confesso di essere stato preso da un moto di tedio alla vista dell’enorme catalogo Skira dedicato a una mostra di Toulouse-Lautrec a Pisa. Sembrava l’ennesimo omaggio che i nostri musei si precipitano a rivolgere alla stagione impressionista, per carità, made in France, solo quella ha il bollino di garanzia dell’autenticità. Pazienza se, a darci in pasto queste abbuffate di Monet e compagni ci pensa l’indefesso Marco Goldin, che è un privato e ha il diritto di fare i suoi interessi, ma quando si tratta di enti pubblici, qualcuno gli dovrebbe tirare il collo per la pessima spesa e il deteriore effetto di incoraggiare le nostalgie di un pubblico impreparato. Ma questa volta si tratta di una mostra, e catalogo, che ci danno la quasi totalità dell’opera grafica del genio di Albi, oltretutto ben curati da una cara amica e collega, Maria Teresa Benedetti, che mi fa piacere una volta tanto sorprendere in libera uscita dalle mostre mercificatrici, a gara col suddetto Goldin, che in genere ci ammannisce il Vittoriano di Roma. Toulouse-Lautrec è stato, per così dire, un artista di serie B a livello pittorico, e proprio perché in lui l’impianto grafico era assolutamente dominante, mentre nel dilatarsi su una superficie di tela era costretto a diradare la sua trama, come un tessuto troppo teso il cui ordito si scompone, mentre l’artista era signore assoluto se si trattava di dominare una superficie cartacea, oltretutto elaborata già lasciando cadere il tradizionale pennello ma valendosi degli apporti forniti dalla tecnologia di quei tempi, già in combutta con le esigenze industriali-consumistiche. E la litografia, mezzo privilegiato dal Nostro, funzionava in misura eccellente per tale verso.
Toulouse-Lautrec si trovava in una situazione molto particolare, che mi è già venuto di illustrare quasi mezzo secolo fa quando gli ho dedicato un fascicolo specifico nell’”Arte moderna” dei Fratelli Fabbri, volume secondo, in cui trattavo del Simbolismo, ma appunto facendo notare la collocazione del tutto particolare che questo artista vi trovava. Per un verso egli era un utilizzatore di alcuni tra i cinque aurei precetti stabiliti dal giovane Albert Aurier, esemplati sul caso dominante di Gauguin. E dunque, anche il Nostro abbraccia la sintesi, accetta il canone di stesure ”á plat” che quasi cancellano la terza dimensione, inoltre è pronto a giurare che l’arte debba essere un fatto pubblico, capace di investire la vita di tutti i giorni. Ma d’altra parte egli respinge risolutamente proprio la ragione sociale di quel movimento, cioè il fatto che il tracciato grafico-pittorico debba essere un simbolo, tentare di afferrare qualche entità metafisica sfuggente. I Simbolisti autentici, capeggiati da Gauguin, si muovevano in quella direzione mossi dall’impulso a contestare la società borghese del loro tempo, ritenendo che fosse l’ora di alzare il plafond, di sollevare l’umanità in più spirabil aere, prendendo spunto dalle civiltà extra-occidentali. Toulouse-Lautrec si guardava bene dal seguire i coetanei su questa strada, per lui la Ville Lumière e i suoi piaceri erano un teatro pienamente sufficiente, magari anche riconoscendo che le gioie, feste, spettacoli esaltanti offerti dal contesto urbano avevano subito il rovesciamento della medaglia, l’abbrutimento dei drogati o degli alcolizzati, lo squallore delle femmine da strada. Cosicché il Nostro tendeva già la mano in direzione del movimento successivo, l’Espressionismo, ma senza condividerne, di nuovo, gli aspetti di troppo palese denuncia sociale, per cui il miserabilismo da lui narrato, trovava pur sempre un qualche pronto riscatto nei piaceri della tavola, della danza, della carne.
E dunque, ecco queste superbe litografie con cui, magari d’accordo col parigino acquisito Mucha, il Nostro svolge uno straordinario poema tutto rivolto a celebrare i “plaisirs de la ville”, un balletto di cui i vari protagonisti ed eroi si esibiscono a ritmo di espansioni e restringimenti, qualcuno di essi, vedi Aristide Bruant, si gonfia come un pallone, o meglio, si dilata come una incontenibile chiazza d’olio, mentre per contraccolpo certe attrici e cantanti di avanspettacolo (la Goulue, Jane Avril) si contraggono, si fanno esili, sinuose, serpentiformi.
Ma è inutile dilungarmi su questa festa eccelsa di moti lineari, su questa epopea di una ritrovata e praticata in mille guise Flatlandia: vietato sporgere, mettere qualche parte del corpo in fuori, sottrarla a questo perfetto gioco combinatorio di mosse alterne, a incastro, a puzzle. Piuttosto, mi scappa di inserire in proposito una riflessione che mi è abbastanza consueta, rivolta a tener conto degli sviluppi recenti resi possibili dai progressi tecnologici. Immaginiamoci che cosa avrebbe potuto fare questo artista se oltre alla scorrevole, invasiva litografia, ma tale da imporre un “ferma immagine”, avesse potuto disporre anche del movimento reale oggi reso possibile dal video, e in particolare dalla tecnica dei cartoni animati. Un Toulouse redivivo, insomma, potrebbe gareggiare ad armi pari con un astro di queste nuove possibilità, William Kentridge, e magari essere invitato anche lui a decorare con una sequenza inarrestabile di immagini i muretti lungo le rive del Tevere.
Toulouse-Lautrec. Luci e ombre di Montmartre (sottotitolo pretestuoso di cui non si sente affatto il bisogno, in realtà opera grafica), a cura di M.T. Benedetti, Pisa, Palazzo Blu, fino al 14 febbraio, cat. Skira.