Domenica scorsa ho lodato molto l’improvvisa e imprevista comparsa, al MART di Rovereto, di una retrospettiva dedicata a Beppe Devalle, artista di nicchia, uscito fuori dal cono di luce dei riconoscimenti ufficiali. Per la stessa ragione mi devo rallegrare ora del fatto che la Fondazione Prada, anor più dedita a premiare i “soliti noti”, trovi invece voglia e spazio per portare l’attenzione su Gianni Piacentino. E’ vero che questo rito abbastanza insolito, per la linea di navigazione della Fondazione milanese, è pur sempre condotto dal critico ufficiale di riferimento, Germano Celant, e che il patron così autorevole dell’Arte povera non aveva mancato di porre anche Piacentino tra i membri del fortunato sodalizio. Ricordo di averlo visto, mi pare agli inizi del ’69, in una mostra nello stanzone disadorno ma tanto funzionale che Gian Enzo Sperone gestiva a Torino, Corso San Maurizio, in quei momenti iniziali del movimento, ma subito il Nostro mi parve non collimante con i requisiti generali del poverismo. Manifestava un apparente consenso al Minimalismo statunitense, il che poteva anche corrispondere all’identikit del nascente fenomeno poverista, che nei suoi primi tempi non aveva ancora del tutto il coraggio di allontanarsi da mosse rigide e anchilosate, di osservanza para-geometrica. Ci volle qualche sviluppo ulteriore per spingere gli iscritti ufficiali a quel club a stemperare i rigori asettici iniziali sotto l’influsso dell’Anti-form, secondo la svolta che Bob Morris, padre riconosciuto del Minimalismo, stava imprimendo, a New York, alla sua opzione iniziale, dirottandola appunto verso l’Anti-form, ovvero dando inizio a quello che io stesso avrei poi chiamato un Informale “freddo” o tecnologico, subendo gli sberleffi dei colleghi, che mi imputavano di essere il solito “bolognese” nostalgico di vecchi riti. E in effetti a credere fino in fondo a quella svolta verso l’Anti-form allora, più che lo stesso Celant, sempre cauto nelle sue mosse e pronto a imboccarle solo quando si sentisse le spalle ben coperte, ci fu Piero Gilardi, a costo di affondare ancor più la sua produzione fin troppo legata alla presenza degli oggetti di natura, rifatti sul registro del “tale e quale”. Ma tornando a Piacentino, beninteso egli era le mille miglia lontano da qualsivoglia concessione all’Anti-form, anzi, appariva un convinto sostenitore di opere impeccabili, quanto mai chiuse entro formati geometrici: porte, tavole, architravi, però già con qualche significativa deroga, rispetto ai canoni minimalisti, dato che quei corpi, pur solidi e ben squadrati, rifuggivano dalle lamiere metalliche venendo prodotti con un legno dal sapore artigianale, e soprattutto venivano tinteggiati con colorini freddi ma svenevoli, quasi da aprire la strada a quanto avrebbero fatto in seguito Peter Halley o John Armleder. Era insomma in lui un’opzione decisa verso valori legati all’artificiale, al voluttuoso, all’optional, tanto che, seguendo la mia metodologia affezionate ai contrasti dialettici, proprio pensando a lui meditai di lanciare un’onda contraria al poverismo, nel nome di un’arte “ricca”. Deviai poi in direzione non tanto di quella coppia, povero-ricco, bensì verso l’altra tesa tra l’attualità più spinta e invece la rivisitazione del passato, varai cioè qualche anno dopo, nel ’74, la “Ripetizione differente”, senza però inserirvi Piacentino, dato che lui, piuttosto che ripetere il museo seppure sul registro dello straniamento, preferiva frequentare un passato del tutto prossimo, darsi a rovistare in un museo, sì, ma dove si conservassero le reliquie di un primo industrialismo. Comunque non gli negai certo il mio appoggio, credo di aver scritto varie volte a suo favore. Ed ecco ora la mostra in un ampio spazio del Prada, dove alle pareti si allineano questi reperti tratti appunto, per via immaginaria, da un museo dell’immediato passato. Sembra di entrare nelle stanze di un cacciatore di trofei, ora allineati appunto sulle pareti, solo che la caccia grossa condotta dal Nostro ha portato a casa non i busti di animali feroci, bensì fiancate, parafanghi di auto d’epoca, che da un lato, con i loro tesi ritmi orizzontali, ricordano ancora qualche sopravvivenza di un’impostazione minimalista, ma poi, a fare la differenza emergono, ben in vista, i marchi, i loghi, gli stemmi delle Premiate ditte cui si devono quei pezzi di modernato. Del resto, il nostro artista non si limita a una diligente ricerca, da collezionista spinto da una passione incontenibile, ma, provvisto di quelle ghiotte prede, procede poi a combinarle, come un bambino farebbe con i pezzi di un meccano, ne asseconda lo spirito macchinista e ne ricava strani corpi mobili, come delle bici prodigiosamente allungate, sgorgate dalla fantasia di qualche inventore scapricciato, innamorato della scienza utopistica di cui era prodigo Jules Verne. Sarebbe bello se quelle “callidae iuncturae”, quegli immaginari bicicli potessero essere davvero utilizzati, uscir fuori dallo spazio protetto del museo e andare a percorrere le vie cittadine, sarebbe come vedere l’utopia scendere dal cielo, da una dimensione immaginaria e prendere consistenza reale. Al vedere quella immaginaria e utopica invasione, i normali cittadini strabuzzerebbero gli occhi, ma di sicuro sarebbero conquistati dal fascino sottile che ne emana. O forse, come sempre, i sogni devono rimanere nel cassetto, e dunque questa popolazione immaginaria deve restarsene racchiusa e protetta ad animare soltanto le stanze di un museo, che però concede loro un’ampia possibilità di esibirsi.
Gianni Piacentino, a cura di Germano Celant, Milano, Fondazione Prada, fino al 10 gennaio.