Letteratura

Veltroni, dialogo col padre

In genere è lecito e giustificato nutrire sospetti verso personalità che abbiano raggiunto un notevole livello di successo in vari settori, politica, economia, spettacolo, sport, quando decidono di aggiungere ai solidi titoli già conseguiti la palma di abili narratori, alla ricerca di un nutrito consenso di pubblico. C’è il sospetto che si siano valsi di abili ghost writers cui si siano limitati a offrire i dati materiali, e in presenza di eventuali recensioni positive si teme che siano il frutto di sordidi e inconfessati interessi, di chi si vuole ingraziare il potente o evitarne eventuali e temibili ritorsioni. Questo, per me, non è mai stato il caso di Walter Veltroni, di cui, anzi, ho recensito con pieno consenso, su “Tuttolibri”, prima di esserne stato rottamato in un modo “che ancor m’offende”, i due prodotti di Veltroni di più spiccata natura narrativa, “La scoperta dell’alba” del 2006 e “Noi” del 2009. Ora ho letto d’un fiato il recente “Ciao”, che mi ha permesso di distogliermi dalla lettura dell’ultimo, faticoso, greve prodotto di Claudio Magris, che mi ha dato l’impressione di affrontare un muro di granito scavandolo con le unghie. La scrittura del leader politico invece è accogliente, confortante, magari col rischio opposto di esserlo troppo. Inoltre questa volta c’è, da parte sua, un qualche mutamento di pedale, ovvero ci troviamo di fronte a un’opera scorrente su un doppio binario, al modo di quanto osservavo poco tempo fa a proposito di Scurati e del suo “Tempo migliore della nostra vita”, che intrecciava una componente storica, una biografia puntualmente ricostruita di Leone Ginzburg, associandola, per affinità o contrasto, con gli eventi oscuri della sua famiglia. A quel modo, il “vero” della storia documentabile si incrocia col “verosimile” di una autonarrazione, nei cui confronti non c’è alcun obbligo di andarne a controllare l’esattezza, al contrario, ci si deve lasciar trasportare dalle tipiche virtù della creazione romanzesca, da giudicare coi canoni che le convengono. Ovvero, se si vuole ricorrere a una formula dotta, siamo in presenza della manzoniana opera “mista di storia e d’invenzione”.
In “Ciao” per un verso Veltroni dedica al padre Vittorio, scomparso nel 1956, a soli 38 anni d’età, l’omaggio di una biografia, si deve supporre ben istruita e conforme, a giudicare dalle testimonianze inserite e citate fedelmente di grandi protagonisti del mondo del giornalismo e soprattutto della RAI di quegli anni. Tra i titoli di merito del padre che il figlio puntualmente menziona, in questa fase da accurato biografo, c’è anche quella di aver consigliato a Michele Buongiorno di non rientrare negli USA, dopo i primi passi presso di noi, ma anzi di inalberare orgogliosamente il nome di battagli, Mike, che poi lo ha reso famoso. Tanti altri sono i meriti che vengono attribuiti al personaggio precocemente scomparso, e non c’è ragione di dubitare della imparzialità dell’uomo politico e testimone dei nostri tempi, non pare che l’affetto filiale abbia fatto velo. Ma su questa dimensione pubblica si inserisce la sfera degli affetti privati, quella che vale in sede di valutazione narrativa, e mi sembra che essa funzioni bene, strappandoci commozione, consenso, partecipazione- Da un piano molto terreno si passa a uno sospeso a mezz’aria, quando un Veltroni già avanzato negli anni, e rincasando dopo una giornata di normali angustie e affanni, si sente interpellato dal fantasma del padre, che con tono sommesso lo sorprende alle spalle e intavola un dialogo con lui. Il trasportare la trama a simili livelli sospesi, magico-surreali, non è una novità, da parte del Nostro. Nel già ricordato “La scoperta dell’alba” il protagonista, già pervenuto all’età matura, finge di stabilire un collegamento telefonico con una sua incarnazione infantile. Diciamo insomma che Veltroni ci sa fare, con mano delicata, nell’affrontare un clima del genere, di sapore da dirsi pascoliano, allo stesso modo in cui “Zvanì” parla con i suoi morti, ridà loro una consistenza, seppur diafana e trasparente. Il tutto è dominato dalla circostanza di un figlio che dialoga col padre ma quando si trova ad essere più anziano di lui, mentre l’altro confessa di aver sentito come una colpa, di cui si vuole scusare, l’esser morto tanto presto, senza quasi conoscere il figlio ultimo nato, e appena un po’ di più il primogenito Valerio. Entrambi poi riversano il comune affetto nel ricostruire il ruolo sostitutivo esercitato dalla vedova e madre. I due modi di procedere si fiancheggiano e alternano con sapienza, con abile montaggio, che non permette alla ricostruzione documentaria di cadere nel tedioso o nell’encomiastico, mentre il privato non si abbandona in eccesso alle lacrime della nostalgia.
Walter Veltroni, “Ciao”. Rizzoli, pp. 248, euro 18,50

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