Annuncio con piacere ai miei pochi lettori che da oggi ricompaio sulle pagine dell’Unità con la mia rubrichetta d’arte, e la cosa dovrebbe essere continuativa, ogni domenica. Non per questo cesserò di alimentare l’arte anche su questo blog, che mi permette di essere più esteso nel discorso, toccando anche corde del privato da cui viceversa in una sede pubblica è opportuno che mi astenga, E proprio nell’intervento odierno ne darò una dimostrazione. Comincio invero con una osservazione di portata pubblica, deplorando ancora una volta la pessima abitudine dei nostri musei di farsi carico delle spese di ristrutturazione dei musei altrui affrettandosi a prenderne le opere quando appunto questi chiudono per rifarsi il look. L’ennesimo caso proviene dagli Impressionisti in libera uscita dal parigino Musée d’Orsay, con le nostre istituzioni pubbliche che si precipitano a prenderne in prestito le spoglie, suppongo a caro prezzo. Magari, conti alla mano, potranno anche dimostrare che tra i costi del prestito e gli incassi dei visitatori, attratti da prodotti facili e scontati, il bilancio alla fine riesce positivo, ma è diseducativo fornire a getto continuo, al nostro pubblico, qualcosa di noto e risaputo che non accresce le conoscenze e sfonda porte aperte.
Purtroppo questo è quanto avviene alla GAM di Torino che dall’Orsay ha preso una nutrita serie di dipinti di Monet, così rubando il mestiere a Marco Goldin, che d’altra parte è un privato e dunque ha il pieno diritto di fare i suoi interessi infischiandosene di una qualche funzione educativa sul pubblico. infatti da anni egli ci propina dosi massicce di Monet e compagni, come facili esche per strappare buoni incassi.
E tuttavia, qualcosa è avvenuto, nel mio privato, che per onestà mi costringe a riaprire il discorso. Infatti da pochi anni, dopo un mezzo secolo di sospensione, ho ripreso i pennelli in mano, accorgendomi, con orrore, preoccupazione, disagio intellettuale, senso di colpa, di fare, con le tempere in tubetto e su spessi fogli Fabriano, una pittura che può ricordare proprio il da me vituperato Impressionismo. Però, non si parli di Monet, da cui ho cura di tenermi lontano il più possibile. Per usare toni più sostenuti, diciamo che si riapre il “combattimento per un’immagine”, quale si agitava proprio alle origini del movimento francese, non per nulla ospitato, al suo manifestarsi, nel gabinetto del fotografo Nadar. Ma allora vinceva l’arte, con la sua vivacità e golosità di colori, contro le lentezze, le gelatine opache del rivale fotografico, che si trovava ben lungi dall’odierna perfezione. Oggi invece i termini si sono rovesciati, e proprio la rivoluzione del ’68 è sembrata sancire la vittoria indiscutibile della foto, con interdizione di fare ricorso alla pittura. Non so quante volte ho lodato il celebre triangolo di Kosuth, che ci ha insegnato che, per riferirci a un oggetto comune come una sedia avevamo, da quel momento in poi, tre vie: fotografare la cosa, o prenderla tale e quale e farla entrare nell’opera, o valerci della sua definizione linguistica citando una pagina di vocabolario. Oggi invece mi pare che la quarta via del ricorso a una rappresentazione pittorica, allora esclusa, seppure timidamente si riaffacci, e ne ho dato segnali proprio su questo blog, per esempio lodando le apparizioni, all’ultima Biennale di Venezia, di Marlene Dumas e di Georg Baselitz. Ebbene, nel mio piccolo, anch’io seguo queste orme, partendo da foto di spunti presi “dal vero”, come titolavo l’anno scorso una mia prima mostra, cioé da piccole epifanie o “occasioni” (titolo di una seconda mostra tuttora in atto) sollecitate dalla realtà, poi cercando di ridare loro una consistenza materica, di tessuti, di carni, nel caso di ritratti. Ma la freddezza, e il tuffo nella banalità, che il passaggio dalla foto consentono, o meglio impongono, mi tengono lontano dai brividi, dalle morbidezze, golose e accattivanti, del monettismo. Prendiamo proprio l’immagine di cui si vale la copertina del catalogo per la mostra alla GAM. Vi compare quanto viene ritenuto più accattivante verso un pubblico ignaro e impreparato, una damina fragile nelle fruscianti gonna e mantella al vento, che si ripara all’ombra di un civettuolo ombrellino da sole. Ebbene, questa è un’immagine del tutto fuori contesto, capace solo di alimentare una insensata e diseducativa nostalgia, in totale contraddizione con tutto l’impatto della civiltà odierna. Ci risulta assai più prossimo il linguaggio di Edouard Manet, fatto di sagomature essenziali, di stesure ferme, debitrici più della luce fredda di interni che dei brividi sensuali di un paesaggio esterno. E il primo Monet, quello ancora vicino al fratello maggiore intento anche lui a darci dei “Déjeuners sur l’herbe”, ne manteneva un ricordo, che poi gradualmente perdeva cedendo al gusto sfatto di un tripudio di sensazioni colte lontano dal mondo urbano, immergendosi in una natura fatta tutta di palpiti, di brividi atmosferici, fino al tuffo finale nelle ninfee, che suscitano ancor oggi gridolini di ammirazione agli sprovveduti, e invece sono un’esperienza del tutto aliena alla nostra società. Da Manet invece parte un liungo asse che passa attraverso i “pittori della realtà” sul tipo dello svedese Zorn e dello spagnolo Sorolla, giunge allo statunitense Edward Hopper, procedendo oltre, e io ne sarei un piccolo prosecutore, Ma attenzione, non in termini di quell’Iperrealismo coltivato negli anni ’70 da Estes e compagni, del tutto succube della fotografia, che ostentava una dipendenza fin troppo accentuata e passiva rispetto alla rivale ormai dominante. Ho riconosciuto, anche di recente, che la fotografia continua nel suo superbo percorso per esempio se affidata alla maestria di David Lachapelle, ma forse è giunta l’ora di opporle un contraltare, timorato, consapevole di una sua inferiorità, eppure nello stesso tempo deciso a giocare una carta alternativa.
Monet dalle collezioni del Musée d’Orsay, Torino, GAM, fino al 31 gennaio. Catalogo Skira.