Non sono stato certo favorevole a Michela Murgia quando nel 2010 ha ottenuto un notevole successo con “Accabadora”, una storia ricavata dal folclore della sua Sardegna, dove da tempo immemore si ricorre ai mali uffici di una mammana per far uccidere un ammalato terminale che provoca solo disagi ai suoi familiari. Ma in quel caso sussisteva un netto distacco tra l’autrice, immersa nel nostro tempo, nella nostra civiltà, che dunque andava a recuperare dal passato una vicenda non più “nostra”, anche se figure del genere sono tutt’altro che scomparse, ma certo non agiscono più nei modi grossolani e scoperti delle mammane di quei tempi. Le stesse obiezioni ho rivolto verso altri autori delle medesime origine sarde, come Fois, anche se ora residente a Bologna, e Niffoi. In seguito la Murgia si è riscattata da quella dubbia partenza, ha ottenuto un notevole successo presso i media, anche come portatrice di una voce di sinistra. Ora ritorna alla narrativa, ma in modo giusto. Per dirlo con una formula, ora diventa la accabadora di se stessa, rivivendo dall’interno quella atroce vicenda, col che mi pare che si porti molto vicino alle modalità di azione di una scrittrice che amo molto, la Vinci. MI riferisco alle Tre ciotole, che sono le stoviglie volutamente di taglio quasi orientale, cinese, entro cui la narratrice rovescia i suoi conati di vomito, suscitati da un tumore che le crea uno stato di anoressia permanente. Segue una ben assortita serie di casi del genere, appartenenti a quelli che lei stessa definisce “Rituali per un anno di crisi”. Non starò a ripercorrerli, basterà portarmi al finale, in cui una sopravvissuta cerca disperatamente di disfarsi degli abiti di una congiunta morta del solito male del secolo. Il racconto è svolto con una delicatezza, grazia di accenti, compunta tristezza, tanto da ricordare un grande esempio, quello di Virginia Woolf, il che non è certo riconoscimento da poco.
Michela Murdia, Tre ciotole, Mkindadori, pp. 117. euro 18.