Arte

Di Stasio, attuale capofila degli Anacronisti

Sono sempre stato favorevole al fenomeno detto dell’Anacronismo, anche perché sostenuto da critici a me cari come Maurizio Calvesi, Giuseppe Gatt e Italo Tomassoni. Anzi, rispetto sia ai miei Nuovi-nuovi, sia alla Transavanguardia di Bonito Oliva ho pure ammesso che il titolo di quel movimento era più giusto e centrato, coglieva meglio degli altri due il ritornare indietro nel tempo storico che era proprio l’anima di tutto quel clima, tipico dei nostri anni Settanta. Non per questo avevo potuto ammettere qualche membro di quel gruppo alla mia precoce ricognizione del 1974, La ripetizione differente, tenutasi allo Studio Marconi, in quanto tra gli esponenti della nuova generazione solo Ontani e Salvo erano già pronti per entrare in questo ambito, non ancora invece il numero uno di quel movimento, Carlo Maria Mariani (1931), che ci sarebbe arrivato solo l’anno dopo, nel ’75, in una mostra a Roma sotto la gestione di Enzo Cannaviello, poi trasferitosi, e ancor oggi attivo a Milano. Peraltro non ho perduto neanche quella prima occasione per dedicare una presentazione di pieno consenso a Mariani, un consenso che poi si è raffreddato man mano che lui stesso ha appesantito la sua arte inchiodandosi a un passato sempre più ingessato ed esorbitante, che magari è piaciuto per il suo estremismo agli architetti statunitensi del postmoderno, Ma gli è venuto in aiuto il più giovane, di quindici anni (1948) Carlo Di Stasio, che ora si presenta a Milano alla Fondazione Stelline, con una serie di dipinti assolutamente tipici del suo stile, che rispetto al padre putativo Mariani presenta il vantaggio di spezzare la visione in una serie di riquadri, di siparietti, così interrompendo la possibile monotonia di un trattamento delle immagini intonato al “vero più vero del vero”. Proprio il fatto che l’insieme sia come smembrato in episodi autonomi dà loro una forza maggiore, e quasi li rende equipollenti a delle azioni materiali, a delle performances, quasi a sfidare De Dominicis o Vettor Pisani. E come loro, in queste simulazioni intonate a una piatta verosimiglianza, Di Stasio mescola sapientemente prelievi da una realtà prosaica, quotidiana, come ad esempio certi mucchietti di sabbia, oppure slanci quasi da Icaro ponto a innalzarsi a volo, prendendo spinta come da una pedana elastica. Insomma, una serie di movimenti ben concepiti e stuzzicanti, però fissati in una magica stasi quasi per colpo di bacchetta magica che li sospende nel tempo e nello spazio. Beninteso una colorazione adeguata a questi vari obiettivi contribuisce al fascino dei vari episodi dando loro un rilievo quasi plastico, tridimensionale.

Sono sempre stato favorevole al fenomeno detto dell’Anacronismo, anche perché sostenuto da critici a me cari come Maurizio Calvesi, Giuseppe Gatt e Italo Tomassoni. Anzi, rispetto sia ai miei Nuovi-nuovi, sia alla Transavanguardia di Bonito Oliva ho pure ammesso che il titolo di quel movimento era più giusto e centrato, coglieva meglio degli altri due il ritornare indietro nel tempo storico che era proprio l’anima di tutto quel clima, tipico dei nostri anni Settanta. Non per questo avevo potuto ammettere qualche membro di quel gruppo alla mia precoce ricognizione del 1974, La ripetizione differente, tenutasi allo Studio Marconi, in quanto tra gli esponenti della nuova generazione solo Ontani e Salvo erano già pronti per entrare in questo ambito, non ancora invece il numero uno di quel movimento, Carlo Maria Mariani (1931), che ci sarebbe arrivato solo l’anno dopo, nel ’75, in una mostra a Roma sotto la gestione di Enzo Cannaviello, poi trasferitosi, e ancor oggi attivo a Milano. Peraltro non ho perduto neanche quella prima occasione per dedicare una presentazione di pieno consenso a Mariani, un consenso che poi si è raffreddato man mano che lui stesso ha appesantito la sua arte inchiodandosi a un passato sempre più ingessato ed esorbitante, che magari è piaciuto per il suo estremismo agli architetti statunitensi del postmoderno, Ma gli è venuto in aiuto il più giovane, di quindici anni (1948) Carlo Di Stasio, che ora si presenta a Milano alla Fondazione Stelline, con una serie di dipinti assolutamente tipici del suo stile, che rispetto al padre putativo Mariani presenta il vantaggio di spezzare la visione in una serie di riquadri, di siparietti, così interrompendo la possibile monotonia di un trattamento delle immagini intonato al “vero più vero del vero”. Proprio il fatto che l’insieme sia come smembrato in episodi autonomi dà loro una forza maggiore, e quasi li rende equipollenti a delle azioni materiali, a delle performances, quasi a sfidare De Dominicis o Vettor Pisani. E come loro, in queste simulazioni intonate a una piatta verosimiglianza, Di Stasio mescola sapientemente prelievi da una realtà prosaica, quotidiana, come ad esempio certi mucchietti di sabbia, oppure slanci quasi da Icaro ponto a innalzarsi a volo, prendendo spinta come da una pedana elastica. Insomma, una serie di movimenti ben concepiti e stuzzicanti, però fissati in una magica stasi quasi per colpo di bacchetta magica che li sospende nel tempo e nello spazio. Beninteso una colorazione adeguata a questi vari obiettivi contribuisce al fascino dei vari episodi dando loro un rilievo quasi plastico, tridimensionale.

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