E’ giusto aver raccolto i molti contributi dati in una fitta militanza critica da Maurizio Fagiolo dell’Arco, anche se la pubblicazione soffre della mancanza una scheda biografica globale, con un tentativo di spiegare il suo allontanarsi, verso la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, proprio da un interessanento sul contemporaneo. Personalmente, non ho molto da rallegrarmi di questa raccolta, dato che Fagiolo mi ha sempre trattato con alterigia e disprezzo, le poche volte che mi ha menzionato. Ma questa sua alterigia derivava dall’essere un fiero esponente di “Roma capitale”, quindi disposto a trattare solo con le altre capitali del nostro Paese, rivolgendo qualche attenzione solo ad artisti milanesi e torinesi, ma bolognesi no. E dunque nei primi anni ’60 ha dovuto assistere con disappunto a una calata di bolognesi, sotto gli auspici di Momi Arcangeli, e del gallerista Bruno Sargentini, dall’alto del suo Attico, che tale era davvero, in un palazzo di Piazza di Spagna. E proprio per merito di Sargentini senior io facevo le mie prime incursioni nella Capitale, all’ombra di Sergio Vacchi, subito bacchettati, io e l’artista, da Fagiolo, che appunto era molto fiero della sua romanità, nutrita dell’insegnamento di Argan, con accanto un più disponibile ed aperto Maurizio Calvesi, che un qualità di ispettore delle belle arti, prima di intraprendere la carriera universitaria, aveva fatto proprio tappa a Bologna e là aveva stabilito un buon contatto con Arcangeli e i i suoi Ultimi naturalisti, pronto però ad abbandonarli rimanendo attaccato al solo Vasco Bendini. Se si volessero ricostruire le vicende della militanza a partire dagli inoltrati anni ’50, un posto preminente dovrebbe essere assegnato a Enrico Crispolti, il primo ad essersi impossessato con sicurezza delle problematiche dell’Informale, Sentendosi forte, aveva ritenuto di aggredire perfino il potente Argan, e dietro di lui anche Calvesi. Ma i ’60 non furono favorevoli a Crispolti, che vi commise un errore esiziale. Trascinato proprio dalla polemica contro Argan e soprattutto Calvesi, si era accostato alla Nuova figurazione, quel succedaneo molto equivoco che presso gli ortodossi della sinistra aveva preso il posto del neorealismo. Calvesi invece si era districato da quella palude imbracciando la causa del New Dada e della Pop Art statunitensi. In seguito, anche lui aveva inteso liberarsi dalle maglie di Argan, come del resto avvenne pure a Fagiolo, Che credo non apprezzasse per nulla l’arrivo sulla scena romana di Menna e Boatto. Io , per lui, ero un “provinciale”, sempre dubbio nelle mie scelte. Mi fece perfino il torto di equipararmi a Franco Solmi, quando tutti, almeno a Bologna, sapevano della lite continua che ci separava. Ma è anche vero che io tentavo di mediare i valori ufficiali promossi da Roma capitale con quanto poteva emergere in località minori della provincia. Del resto a quei tempi ci fu un giornalista di punta, Valerio Riva, che parlò di una “provinciart”, di cui io potevo sembrare un risoluto esponente. Meno male che Fagiolo non ha esaminato, e di conseguenza stroncato, la mostra che dietro mandato di Marcello Rumma feci ad Amalfi, nel 1967, intitolata Il ritorno alle cose stesse, piena proprio di quelle mezze figure che, dalla sua alterigia di implacabile difensore dei valori “puri”, di una pittura rigorosa, praticata col tiralinee, egli difendeva, trovandone, a Nord, gli accettabili esponenti in Enzo Mari o in Gianni Colombo, Di sicuro, se avesse ritenuto doveroso dedicarmi qualche sguardo, avrebbe pure dovuto accorgersi nel mio accostarmi all’Arte povera, ma in cui, orribile a dirsi, vedevo un ritorno in scena dell’Informale, seppure in panni “freddi”, con l’aiuto di strumenti tecnologici. Ma Fagiolo stava ormai per cambiare settore d’indagine, attratto dall’influsso del fratello Marcello stava per dedicarsi all’età barocca, con studi certo degni di lui. La carriera del critico militante era ormai terminata, non dandogli il tempo di verificare che, almeno dal ’67 in poi, io non ero più tanto “provinciale”, secondo la condanna sommaria che mi aveva appioppato in precedenza.
Maurizio Fagiolo Dell’Arco critico militante. 1964-1980, a cura di Fabio Belloni, Officina libraria, euro 38-
E’ giusto aver raccolto i molti contributi dati in una fitta militanza critica da Maurizio Fagiolo dell’Arco, anche se la pubblicazione soffre della mancanza una scheda biografica globale, con un tentativo di spiegare il suo allontanarsi, verso la fine degli anni ‘70 del secolo scorso, proprio da un interessanento sul contemporaneo. Personalmente, non ho molto da rallegrarmi di questa raccolta, dato che Fagiolo mi ha sempre trattato con alterigia e disprezzo, le poche volte che mi ha menzionato. Ma questa sua alterigia derivava dall’essere un fiero esponente di “Roma capitale”, quindi disposto a trattare solo con le altre capitali del nostro Paese, rivolgendo qualche attenzione solo ad artisti milanesi e torinesi, ma bolognesi no. E dunque nei primi anni ’60 ha dovuto assistere con disappunto a una calata di bolognesi, sotto gli auspici di Momi Arcangeli, e del gallerista Bruno Sargentini, dall’alto del suo Attico, che tale era davvero, in un palazzo di Piazza di Spagna. E proprio per merito di Sargentini senior io facevo le mie prime incursioni nella Capitale, all’ombra di Sergio Vacchi, subito bacchettati, io e l’artista, da Fagiolo, che appunto era molto fiero della sua romanità, nutrita dell’insegnamento di Argan, con accanto un più disponibile ed aperto Maurizio Calvesi, che un qualità di ispettore delle belle arti, prima di intraprendere la carriera universitaria, aveva fatto proprio tappa a Bologna e là aveva stabilito un buon contatto con Arcangeli e i i suoi Ultimi naturalisti, pronto però ad abbandonarli rimanendo attaccato al solo Vasco Bendini. Se si volessero ricostruire le vicende della militanza a partire dagli inoltrati anni ’50, un posto preminente dovrebbe essere assegnato a Enrico Crispolti, il primo ad essersi impossessato con sicurezza delle problematiche dell’Informale, Sentendosi forte, aveva ritenuto di aggredire perfino il potente Argan, e dietro di lui anche Calvesi. Ma i ’60 non furono favorevoli a Crispolti, che vi commise un errore esiziale. Trascinato proprio dalla polemica contro Argan e soprattutto Calvesi, si era accostato alla Nuova figurazione, quel succedaneo molto equivoco che presso gli ortodossi della sinistra aveva preso il posto del neorealismo. Calvesi invece si era districato da quella palude imbracciando la causa del New Dada e della Pop Art statunitensi. In seguito, anche lui aveva inteso liberarsi dalle maglie di Argan, come del resto avvenne pure a Fagiolo, Che credo non apprezzasse per nulla l’arrivo sulla scena romana di Menna e Boatto. Io , per lui, ero un “provinciale”, sempre dubbio nelle mie scelte. Mi fece perfino il torto di equipararmi a Franco Solmi, quando tutti, almeno a Bologna, sapevano della lite continua che ci separava. Ma è anche vero che io tentavo di mediare i valori ufficiali promossi da Roma capitale con quanto poteva emergere in località minori della provincia. Del resto a quei tempi ci fu un giornalista di punta, Valerio Riva, che parlò di una “provinciart”, di cui io potevo sembrare un risoluto esponente. Meno male che Fagiolo non ha esaminato, e di conseguenza stroncato, la mostra che dietro mandato di Marcello Rumma feci ad Amalfi, nel 1967, intitolata Il ritorno alle cose stesse, piena proprio di quelle mezze figure che, dalla sua alterigia di implacabile difensore dei valori “puri”, di una pittura rigorosa, praticata col tiralinee, egli difendeva, trovandone, a Nord, gli accettabili esponenti in Enzo Mari o in Gianni Colombo, Di sicuro, se avesse ritenuto doveroso dedicarmi qualche sguardo, avrebbe pure dovuto accorgersi nel mio accostarmi all’Arte povera, ma in cui, orribile a dirsi, vedevo un ritorno in scena dell’Informale, seppure in panni “freddi”, con l’aiuto di strumenti tecnologici. Ma Fagiolo stava ormai per cambiare settore d’indagine, attratto dall’influsso del fratello Marcello stava per dedicarsi all’età barocca, con studi certo degni di lui. La carriera del critico militante era ormai terminata, non dandogli il tempo di verificare che, almeno dal ’67 in poi, io non ero più tanto “provinciale”, secondo la condanna sommaria che mi aveva appioppato in precedenza.
Maurizio Fagiolo Dell’Arco critico militante. 1964-1980, a cura di Fabio Belloni, Officina libraria, euro 38-