Antonio Natali, alla testa degli Uffizi, inanella un nuovo successo, dopo quello ottenuto con l’accoppiata Pontormo-Rosso, realizzando una perfetta mostra monografica dedicata a Piero di Cosimo (1462-1522), la prima che si fa in Italia da tempi immemorabile, e su un piede di autonomia rispetto a un evento parallelo tenutosi a Washington, National Gallery. Peccato che nell’occasione Natali rinnovi l’unico punctum dolens della manifestazione precedente, la ripulsa dell’etichetta di Manierismo, una curiosa costante della critica di matrice fiorentina, con ciò schierata contro un uso mondiale ovunque affermato. Forse è la diffidenza partorita da Longhi, con l’aiuto di un’influenza crociana, contro tutti gli “ismi” o etichette generaliste di carattere stilistico; forse, ed è l’unica ragione accettabile, ci sta il rifiuto della degenerazione verso turbe psichiche che, attraverso le letture del Vasari, sembra dover accompagnare inevitabilmente la qualifica di Manierismo. C’è però una nemesi, dato che anche per l’”innocente” Piero la famigerata etichetta rispunta, seppure di striscio, forse non voluta dal direttore ma dai suoi bravi curatori. Infatti la mostra risulta intitolata al “Pittore eccentrico fra Rinascimento e Maniera”. Il primo termine è abusato, onnivoro, e mi è già capitato più volte di consigliarne la soppressione, in quanto, dal Quattrocento in poi, non rinasce un bel niente, i lontani prototipi della pittura classica sono incerti, scuciti, imperfetti. Quanto al vedere affacciarsi nel titolo la Maniera, è quasi una nemesi, un revenant che si insinua dove non lo si aspetterebbe, ma in effetti anche in questo caso compare puntuale l’esegesi vasariana, pronta ad affliggere già Piero, come farà poi in dosi ben più massicce per il Pontormo e il Rosso, la nomea di bizzarria, di stravaganza, di vita da selvaggio. Ma forse il Vasari adottava queste chiavi patologiche semplicemente per denunciare proprio un vizio stilistico, una per lui preoccupante inclinazione verso l’arte tedesca, magari verso il per lui reprobo Alberto Duro. Questo infatti è il punto, Piero ci appare duro, solenne, scavato, plastico al massimo nei corpi, e soprattutto nei volti, nei ritratti, che in lui raggiungono proprio una forza dureriana, Caratteri che lo tengono ben discosto dai fiorentini che gli si possono accostare, dal maestro che ebbe in Cosimo Rosselli, affabile, aggraziato, ma nulla più. e dal gremito Filippino Lippi, troppo impegnato a seguire le orme del Botticelli. Mentre il Nostro compone in modi pausati, poche figure per volta. Semmai, a volergli ritrovare una parentela, si dovrebbe andare verso il più giovane, di più di un decennio, Lorenzo Lotto, su cui scatterà la solita congiura di scambiarne le propensioni “tedesche” per altrettante turbe psichiche. Fatto sta che è ben difficile accostare davvero Piero a qualche suo conterraneo, egli non procede verso un Fra’ Bartolomeo o un Andrea del Sarto, più composti, maestosi ed equilibrati, caso mai scatta una ulteriore parentela alquanto trasversale ed eteroclita che, guarda caso, lo porta nei pressi di un altro “tedesco” attivo al di quale dell’Appennino, Amico Aspertini. E in definitiva bisogna ammettere che il Vasari, punitivo verso di lui per un verso, lo beneficia per un altro di una spinta propulsiva portandolo dentro il territorio eletto della terza maniera, o maniera davvero moderna, il che però non è accettabile. Nulla da fare, solo Leonardo riuscì a compiere il miracolo, e nonostante quella sua nascita precoce ferma al 1452 riuscì a introdurre il fattore del tutto “moderno” dell’atmosferismo, nulla di ciò in Piero di Cosimo, e dunque non si può accreditare la sua pretesa ammirazione per il genio leonardesco, o se questa ci fu, rimase un atto privato senza riscontro stilistico. Altra caratteristica eccentrica rispetto al clima fiorentino fu la sua tendenza a diffondere il dipinto in orizzontale, come per delle maxi-predelle, il che gli permise di compiere il suo massimo capolavoro, “il Satiro che piange la morte di una ninfa”, della National Gallery di Londra, ma soprattutto gli diede ampi spazi per impiantarvi un suo zoo, che però, ancora una volta, nulla ha a che fare con l’acribia naturalistica di Leonardo, ma si tratta di animali favolosi, immaginari, di un bestiario in tutto degno delle wunderkammern, che saranno proprio tra i prodotti centrali della temperie manierista, e dunque ancora una volta bisogna andare esuli dalla sana e mediterranea terra di toscana, cercare paralleli con i favolosi bestiari d’oltralpe, attorno a Lucas Cranach il Vecchio, o addirittura Ieronimus Bosch, oppure indietrettagiare a Hans Memling, cioè alle visioni meticolose dei fiamminghi. E beninteso, nessuna vicinanza con i moderni autorizzati sul tipo di Fra’ Bartolomeo e di Andrea del Sarto, se non sia quando nelle Madonne di quest’ultimo compaiono taluni vezzi, boccucce con fossette, occhietti sprizzanti malizia, che poi verranno ripresi proprio dal Pontormo, verso cui il Nostro naviga, ma da lontano, e senza scostarsi troppo dalle rive del Quattrocento, nessun passo invece verso la grande rivoluzione leonardesca.
Piero di Cosimo. Pittore eccentrico fra Rinascimento e Maniera, a cura di E.Capretti, A. Forlani, D. Parenti, fino al 27 settembre. Cat. Giunti.