Arte

Ben tornato Domenico Gnoli alla nostra attenzione

Sarebbe interessante sapere se la mostra di Domenico Gnoli, ora allestita alla milanese Fondazione Prada, fosse già nei programmi di Germano Celant, prima della sua prematura scomparsa, o se si tratta di una libera scelta della Fondazione, Non che Celant potesse essere ostile a questo artista (1933-1970) il cui successo alla metà degli anni 60, e una morte anch’essa prematura, lo ponevano fuori, in netto anticipo, rispetto all’area di emersione di Germano con la sua Arte povera. In quel momento Germano era solo un giovane allievo di Eugenio Battisti, il grande storico dell’arte chiamato all’università di Genova, che si aggirava per le vie del capoluogo ligure con un macchinone americano in cui quasi scompariva al volante. Celant sedeva di dietro in austero silenzio, quindi non si sa affatto che cosa pensasse di quell’artista estraneo del tutto a certi parametri, quelli che si imponevano a Roma e portavano diritto alla Pop Art di fede statunitense. Gnoli sembrava un diverso, ma diciamo pure un reazionario, cosa da lasciare a un eterodosso come me, non allineato sui valori ufficiali della Scuola del Popolo, e anzi andavo in giro per l’Italia a cercare episodi di “ritorno alle cose stesse”, come avrei intitolato poco dopo una mostra ad Amalfi. Mi era al fianco, nella piena valutazione di Gnoli, solo un critico come Luigi Carluccio, considerato un conservatore, che quindi contribuiva a tuffare Gnoli in un’atmosfera di fuori tempo, di retrogrado, di attardato rivolto a inseguire modalità degne di Magritte, o del realismo magico dei nostri novecentisti. Eppure le tematiche erano dettate dagli aspetti della moda del momento, in definitiva paritetici a quegli stessi inseguiti, a Roma, da Schifano e compagni. Solo che i Romani si facevano ispirare dai prodotti pubblicitari per assottigliare, smagrire, stilizzare le forme, laddove Gnoli, pur nel proporci anche lui colli con cravatte mastodontiche, quasi da ricordare Jim Dine, o scriminature di chiome, o soffici coperte da letto, e così via, usava un pennello grosso, una fattura gonfia di effetti plastici, indulgeva insomma a tutti i possibili canoni del pittoricismo, messi al bando dai Pop romani, già in previsione che presto, col ’68, sarebbe intervenuta la proibizione solenne del pennello e dei suoi riti. La morte precoce di Gnoli non ci dice come egli avrebbe reagito a quelle esclusioni, ma ritengo che avrebbe continuato imperterrito per la sua strada, quasi da antesignano dell’”arte colta” a venire, o dell’anacronismo. Io invece mi sentivo stuzzicato da quella sua devozione all’oggettistica più prosastica, roba da far nascere qualche possibile associazione con Robbe-Grillet e con la sua proclamazione per cui “les choses sont là”. Del resto quella mia stessa libertà mentale mi permetteva di concedere una giusta attenzione pure ad altri episodi di oggettualismo estranei ai riti newyorkesi, come la Scuola di Pistoia e l’intera panoramica vigente a Milano, da Adami a Tadini a Baj e compagni. E dunque, benvenuto questo ritorno in pista di Gnoli, col suo oggettualismo imponente, monumentale.
Domenico Gnoli, Milano, Fondazione Prada, fino al 27 febbraio

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