Nessuno si meraviglierà se questa volta, invece di inserire come al solito un pezzo di commento a qualche prodotto di narrativa, vado a parlare di cinema. Ho già detto, occupandomi del romanzo steso dal regista Pupi Avati, che sono un seguace dell’impostazione aristotelica, tanto coraggiosa da aver equiparato, nella sua “Poetica”, all’esame dedicato all’epica, cioè alla narrazione in terza persona, la tragedia e la commedia, ossia la narrazione condotta dal vivo. Il che mi ha consentito di supporre che un Aristotele redivivo non avrebbe esitato ad aggiungere appunto anche il cinema ai generi da lui considerati nella “Poetica”. Del resto, sono un buon consumatore di film, e dunque quale occasione migliore del fatto che ben tre film di registi italiani siano entrati in lizza al Festival di Cannes? Mi pronuncio su di loro senza stare ad aspettare il verdetto della giuria, per non esserne condizionato. Ebbene, io darei il primo premio al “Mia madre” di Nanni Moretti, apprezzando il carattere unitario e coerente di quest’opera, in cui fra l’altro il regista e attore Moretti ha saputo fare un passo indietro rispetto a sue precedenti alterigie e atti di orgoglio, assumendo la parte di uno dei due figli della madre molto ammalata, sacrificandosi per lei fino quasi a rinunciare a una vita in proprio, sia pubblica che privata, assumendo quindi un tono umile, rinunciatario, e così consentendo alla sorella di dominare la scena. Dico subito che questo film si raccomanda soprattutto per la magnifica recita di Margherita Buy, pienamente meritevole di ricevere il primo premio per l’attrice protagonista. Infatti essa riesce a fasciare, a inglobare l’intera vicenda con una sua umanità, piena e nello stesso tempo dolente, capace di comprensione per tutti, così da tenere a freno gli scatti d’orgoglio della regista di successo che è in lei, riuscendo a comprendere le ragioni degli attori nelle loro pretese, e perfino di quel mattatore che è John Turturro, il suo esatto antagonista, sprezzante, capriccioso, tutto genio e sregolatezza, ma poi anche lui capace di ritrovare una schietta umanità, anche perché c’è sempre lei a esercitare una provvida influenza maieutica, come fa anche nei confronti della madre, una anche lei molto brava Giulia Lazzari che a sua volta potrebbe essere candidata al premio per un’attrice non protagonista. La madre, molto ammalata, anzi moribonda, si muove con abilità tra varie tensioni e propositi, per un verso non si sente del tutto dimissionaria nei confronti della vita, vorrebbe prendersene ancora una parte, e non vorrebbe neppure gravare troppo sull’affetto dei figli, continuando ad esercitare un ruolo materno protettivo, in un’ottima mescolanza tra residui conati autoritari e cedimenti improvvisi alla constatata mancanza di forze. Magari, si potrà dire che l’opera nel suo complesso è fin troppo unitaria e che rischia di immergersi in un intimismo un po’ flebile e crepuscolare, ma comunque nel complesso “tiene”, risulta ben condotta.
Al confronto, il film di Sorrentino è tutto il contrario, con scompensi al suo interno, passi falsi, inserti stridenti che si vorrebbe poter espungere. Tanto per cominciare, è curiosa l’antitesi tra titolo e contenuto, il film risulta essere in realtà un inno alla vecchiaia, in quanto affidato a due mattatori, dominatori totali della scena: l’eccezionale Michael Caine che a sua volta pone in via del tutto naturale la sua candidatura al primo premio, ma incalzato da vicino da un altrettanto ottimo Harvey Keitel. Al loro confronto, i vari giovani circostanti appartengono alla categoria dei “bamboccioni”, immaturi, irresoluti, vasi di coccio che vanno a infrangersi contro la solidità dei due anziani, anche perché questi ultimi hanno, sotto sotto, il pieno appoggio del regista e autore del soggetto. Si veda per esempio quando la figlia del musicista in pensione, interpretata da Rachel Weisz, porta un atto d’accusa contro il genitore, imputandogli di aver trascurato la moglie e i figli, di essere stato in preda a uno sfrenato egoismo e di aver tutto sacrificato alla carriera. Ma poi Caine (per chiarezza preferisco nominare gli attori piuttosto che i loro portavoce nello sceneggiato) recupera tutto il terreno perduto dimostrando invece un attaccamento sicuro verso la moglie defunta, al punto che proprio in ricordo di lei rifiuta a lungo un lusinghiero invito della Regina d’Inghilterra, al cui cospetto dovrebbe dirigere certe sue canzoni, ritenendo che solo la moglie scomparsa ne era stata la perfetta esecutrice. Ed è un cedimento a una logica di happy end che poi Caine accetti di dirigere proprio quel concerto, e che il film si chiuda su una maestosa esecuzione di quegli spartiti. Meglio in definitiva se Caine avesse persistito nel suo rifiuto, limitandosi a dirigere la musica, come avviene in una delle scene più riuscite, al cospetto di vacche al pascolo, in totale solitudine e confermando una rinuncia agli allori mondani. Così come per Keitel una corrispondente scena madre è quando un bel prato in fiore si costella della presenza di tutte le donne della sua vita, emergenti come tanti fantasmi. Ma appunto, nel bottino di gloria dei due formidabili vecchi ci stanno i ricordi che a turno e a gara suscitano, passeggiando tranquilli e sereni sulla veranda dell’hotel di lusso. Mentre i giovani sono nelle peste, in mezzo ai guai, e il più incerto fra tutti è il personaggio interpretato da Paul Dano, cui Sorrentino affida uno dei pezzi più irritanti e inutili, una improvvisa imitazione di Hitler, non si sa bene a quale scopo diretta. E purtroppo, come già nella “Grande bellezza”, il regista inserisce tante altre belle statuine, tanti momenti di raffinato formalismo, tanti blocchi di scena ingiustificati, seguendo, come tutti riconoscono, le orme di Fellini, ma perdendo il filo conduttore che nei film del regista riminese non manca mai di giustificare i vari barocchismi. Insomma, se il film di Moretti è piano e univoco, quello di Sorrentino rischia molto, ma anche sbaglia molto, si muove tra picchi in su e in giù.
Venendo al terzo partecipante, “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone, questo si pone fuori dal conflitto per il tema eccentrico e marginale affrontato, non ci sono ragioni stringenti e riportabili a motivi di attualità per andare a rileggere il novelliere di Basile. Però, se proprio lo si deve fare, bisogna riconoscere che Garrone lo ha fatto con maestria, forse prendendo troppo sul serio il suo compito, insistendo in effetti speciali che sono troppo realistici, forse avrebbe dovuto adottare mosse più leggere e stilizzate. Però un suo merito è l’aver deviato verso rotte insolite la maestria tecnologica che oggi viene impiegata per tanti prodotti dei filoni phantasy o futurologici o “mission impossible”. Piuttosto che l’ennesima riproposta di qualche raffazzonamento di questi filoni ormai abusati, meglio senza dubbio la variante al passato tentata da Garrone.