Non so perché nella mia attività di critico letterario, come sa chi per caso abbia qualche conoscenza dei miei lavori, preferisco in genere occuparmi di narrativa piuttosto che di poesia, mentre l’altra mia prevalente occupazione di critico d’arte dovrebbe portarmi a una maggiore vicinanza alla poesia. Invece tendo a evitarla, forse perché la temo propensa a cadere nel difetto che si dice del “poetichese”, cioè l’alibi della brevità, dell’andare a capo autorizza a una certa fatuità, bollata anche dall’espressione di “vergogna della poesia”. Naturalmente il critichese è un vizio che può investire anche altre aree, ma molto meno la narrativa. Malgrado questa mia prevenzione nel seguire quanto avviene in campo poetico, riseco ad affrontarlo quando questo presenti delle violazioni chiare ed evidenti, così da scongiurare appunto la caduta nel “poetichese”. Inoltre nelle mie vaste carrellate sulla letteratura italiana del Novecento sono solito riconoscere che la poesia è sempre arrivata ai grandi appuntamenti prima della consorella, della narrativa. Questa è quasi una regola costante, dai Crepuscolari ai Futuristi su su fino alla neoavanguardia. Inoltre sono sempre stato pronto a intervenire quando, nella ricerca poetica, mi sia stato possibile sorprendere forti effetti di innovazione. Mi posso vantare di aver scritto, negli anni ’80, un libello risoluto, “Viaggio al termine della parola”, con relativa antologia di casi in cui l’unità della parola risulti spezzata, ovvero ci si affidi a quelli che io chiamo esercizi “intraverbali”.
Questa lunga premessa serve a spiegare come mai oggi io vada proprio a esaminare non l’ennesimo romanzo, bensì i versi appena ricevuti di Valeria Argiolas, che mi dice di essere di mezza età, di vivere tra Parigi e Marsiglia e di essere molto interessata a incroci tra il berbero e la nostra lingua. I testi che mi ha mandato si presentano a tutta prima con un’aria molto regolare, di emistichi abbastanza tradizionali. Ma intanto, sono frequenti le assonanze, come se ci fosse al loro interno un effetto di eco che fa rimbalzare i suoni, li raddoppia. Per esempio, in un primo di questi versetti un “appoggia” consuona subito dopo con “pioggia”, e ci sono tanti altri effetti del genere. Poi, anche se in apparenza la Nostra sembra rispettare la regolarità delle singole parole, talvolta vi effettua dei violenti interventi di cesura mettendo tra parentesi qualche sillaba o semplice lettera, col che ottiene che una normale sequenza di senso si apra a significati multipli e imprevisti. Si prenda per esempio una sentenza che apparirebbe del tutto corriva, “Una voce che temo”, ma l’inserimento di una “r” tra parentesi, “tr(e)mo”, apre appunto a un’altra area semantica. Più avanti troviamo un altro effetto di questa natura, a proposito di “una scatola cranica che raccoglie i suoni”, e fin qui tutto normale, ma poi “viene un “c’ho che dici”, dove ancora una volta il banale “ciò” viene movimentato nella forma “c’ho”, a complicare le cose. In sostanza, nel modo di procedere della Argiolas mi piacciono questi interventi, come di chi, dotato di una cesoia, provvede a spezzare gli andamenti che sembrino troppo lineari, troppo affidati a un banale “poetichese”. Interventi da risoluto guastatore, che è quanto fa nascere in me un interesse anche verso gli esercizi di poesia.”