Letteratura

Fingerle, impossibilità di una lingua madre

Ho già fatto più volte le lodi del Premio Calvino, che a differenza di altri più titolati ha il merito di segnalare voci nuove della nostra narrativa, Se ne sta pure accorgendo l’editoria che conta, infatti il romanzo di Nicoletta Verna, “Il valore affettivo”, insignito con menzione speciale al Calvino, è uscito da Einaudi stile libero e ha mietuto una serie di recensioni favorevoli sulla stampa tanto che al confronto la mia voce, pur anch’essa positiva, non è stata scevra di qualche dubbio. Ora invece esprimo un pieno consenso a Maddalena Fingerle e al suo “Lingua madre”, che non per nulla mi è stato particolarmente raccomandato dal Presidente del Premio, Mario Ugo Marchetti, con cui c’è da tempo un valido accordo per far giungere a RicercaBO le sue scoperte, quando queste sono ancora inedite. Così sarebbe stato l’anno scorso per il prodotto Fingerle, se il malaugurato Covid non ci avesse impedito di tenere la nostra solita assise autunnale, da cui forse sarebbe venuto fuori un coro di lodi per questa prova. Si dà un fenomeno curioso che vede promossa in primo piano una regione alquanto marginale nelle patrie lettere, non le solite terre del Sud, Napoli, la Sicilia, bensì una Bolzano, un Sud Triolo, come già è avvenuto con Marco Balzano e il suo “Quando ritornerò”. Anche qui protagonista è un giovane, in definitiva attaccato al capoluogo dell’Alto Adige, e dunque incerto su quale sia la sua “lingua madre”, come suona il titolo dell’opera. Parlare italiano, o tedesco, o qualche dialetto intermedio? In realtà, mi verrebbe da dire, il tema linguistico è solo un problema apparente, infatti quello che vale nel racconto, e nel dramma del protagonista, Paolo Prescher, è una sua condizione di autismo di difficoltà nella convivenza civile, forse originata dal dramma del padre che si è suicidato sotto i suoi stessi occhi, condannandolo a coesistere con una madre e con una sorella da cui si sente non amato. Tanto da desiderare di fuggire dal nido materno per recarsi proprio in un paese di lingua tedesca, a Berlino, a svolgervi una modesta attività di bibliotecario, prigioniera di ritmi fissi, in definitiva confacente al suo bisogno di adattarsi a un genere di vita meccanico, legato a gesti soliti. Viene da pensare al bibliotecario di cui l’eroe di Sartre, Roquentin, si fa beffe nella “Nausea”. In effetti il nostro Paolo in quel luogo opaco e silente incontra un’anima gemella, prigioniera di una omosessualità come tratto esteriore di una timidezza e ritrosia congenite, non prive di attrazione sullo stesso Paolo, che sembra restarne impaniato. Ma il nostro eroe tenta invece di darsi a una vita normale, , anche nel sesso, procurandosi una compagna, e giungendo anche a metterla incinta. A quel punto, non resterebbe che ritornare all’ovile abbandonato, a rifugiarsi nelle pur odiate braccia di madre e sorella, le uniche che possono fornire un minimo di sollievo alla coppia diversamente scarsa di risorse. Ma Paolo non molla, non tradisce il suo congenito autismo, il suo rifiuto di riconoscersi proprio in qualche “lingua madre”. L’ultimo atto sembra replicare il suicidio paterno, e in modo orribile, pare che egli si lasci bruciare sotto il getto bollente di una doccia, imbracciando il neonato, come rifiuto estremo a tutte le lusinghe di una vita normale, compresa la stessa possibilità di parlare davvero una “lingua madre”.
Maddalena Fingerle, Lingua madre, Editore Italo Svevo, pp. 187, euro 17.

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