Arte

Bartolini, un buon avvio al realismo ottocentesco

Mi sono recato molte volte nella fiorentina Galleria dell’Accademia rimanendo schiacciato, ammutolito dall’inarrivabile grandezza del David di Michelangelo. Faceva riscontro a quella mirabile visione uno stanzone laterale in cui giacevano malamente accumulati i gessi di Lorenzo Bartolini, scultore ovviamente da non paragonare al Buonarroti ma che nel tempo ho appreso a stimare sempre di più. Sono quindi ben lieto che ora la stessa Accademia abbia acceso i riflettori su un’opera assolutamente tipica del Bartolini, dedicata alle figlie di una nobildonna inglese, Emma e Julia Campbell, eseguita tra il 1819 e il ’20, da un artista (1777-1859) allora nella sua piena maturità. Si usa dire che egli è stato un allievo del Canova, ma proprio un gruppo come questo ne rivela la diversità, e non si capisce bene neppure perché ci si ostini a farlo rientrare nelle file del cosiddetto Purismo. Se con questo termine si vuole intendere un deciso scavalcamento del “sound and fury” della stagione barocca, verso un ritorno a forme caste e appunto pure in stile quattrocentesco, il termine può essere accettato, ma quello che conta, è che col Bartolini sia cominciato un cauto avvicinamento all’obiettivo principale di quasi tutto l’Ottocento, il realismo. Intano, il tema di per se stesso obbliga l’artista a lasciar perdere lo schema mitologico delle Tre Grazie. Nella sua tematica cominciano a entrare persone in carne ed ossa, queste sono due ragazzine ben liete di esibire la loro dimessa umanità, infatti ci appaiono non certo paludate in classici pepli, degni dell’Olimpo. “Purità” di questo genere, bisogna lasciarle appunto al Canova. Le nostre fanciulle, intanto, evitano la simmetria dei corpi, ciascuna delle due esibisce la propria individualità, volgendo il capo l’una all’altra, ma con gesto semplice, verosimile, disinvolto. Così come le vesti, altro che pepli, sono soltanto delle dimesse vestaglie da notte, magari perfino un po’ consunte ai margini, e con qualche imbarazzante trasparenza. Sembra che l’artista le abbia svegliate dal sonno, e messe in posa, più per una fotografia effettuata prima del tempo, che per un ritratto destinato a ricalcare moduli classici. Naturalmente da quest’opera già del tutto indicativa del mondo di questo autore l’attenzione corre in avanti, fino al suo proverbiale capolavoro, a quella “Fiducia in Dio”, dove una fanciulla altrettanto dimessa, e anche lei sorpresa nel sonno, svegliata da una modesta cella di convento, si inginocchia sul pavimento per rivolgere una sommessa e modesta preghiera. Sono ben lontane le pose altisonanti riservate ai potenti della terra, anche se Bartolini non si rivolge sempre a soggetti minori e marginali, sa mettere in posa anche figure di dominatori, di personaggi carichi di responsabilità, ma c’è sempre l’attenzione a qualche dettaglio, tale da far discendere quei protagonisti, almeno in senso virtuale, dai piedistalli da cui svettano per obblighi d’ufficio, e di committenza da parte dell’artista. E’ insomma una lunga strada nel nome del realismo che a staffetta da Bartolini passa poi agli altri scultori di casa nostra che dobbiamo riconoscere impegnati in quella medesima direzione: un Vela, un Grandi, su su fino a un Troubetzkoy, con un approdo finale a Medardo Rosso, ma quando ormai proprio le misure ferme e solide della realtà si imbrogliano per una eccessiva vicinanza dello sguardo, per troppa aderenza alla pelle dei volti e degli indumenti. Scatta allora, per ridare sostanza a una realtà ormai troppo illanguidita, l’abilità di un Bistolfi che cola le immagini in stampi arcuati e curvilinei. Ma al momento rimaniamo pure ad ammirare questa prima fase di un lungo percorso nostrano.

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