Arte

Lambri, uso “concettuale” della fotografia

Il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) di Milano, con l’abile regia di Diego Sileo, sta dedicando agli artisti emersi nel nuovo secolo una serie di mostre molto opportune. Ho visitato, e recensito con pieno consenso, quelle dedicate a Eva Marisaldi e a Cesare Viel, avrei fatto lo stesso per quella di Luisa Lambri ora in atto se le varie traversie discendenti dal covid, e gli stupidi, insulsi divieti provenienti dal ministro Franceschini, traditore della sua stessa ragione d’essere di ministro della cultura, non mi avessero impedito un contatto diretto. Il rimedio, al solito, è dato da quella che potremmo chiamare VAD, ovvero visita a distanza. Nel caso della Lambri, un rapporto del genere può trovare una qualche giustificazione in quanto lei stessa ricorre a uno strumento alquanto impersonale come la fotografia. Ma sappiamo bene che il ricorso a questo mezzo è stato una delle conquiste della rivoluzione del ’68, di cui più o meno gli artisti ora in campo sono i continuatori. Si dà subito un quesito, quale la differenza tra fotografi fino in fondo, e quanti invece, in nome del cosiddetto “concettuale”, fanno ricorso allo stesso tipo di mezzi? Difficile dirlo, il confine è assai incerto e sorpassabile da una parte e dall’altra. In linea di massima, direi che un fotografo tale fino in fondo cerca soggetti clamorosi, eventi straordinari. Penso a un protagonista come il mio concittadino Migliori che anche di recente ci ha offerto un video in cui si aggira tra i rottami dell’aereo Itavia precipitato nel Tirreno, per ragioni ancora in parte ignote. O in alternativa fotografa statue classiche, e anche volti di persone, alla luce fatua e tremolante di un fiammifero. Un uso “concettuale” della foto alla maniera della nostra Lambri va invece alla ricerca di minuzie, di eventi marginali, forse li si potrebbe qualificare col termine reso celebre da James Joyce di epifanie, momenti insignificanti ma resi densi a un tratto per un pieno esistenziale, anche se apparso in forme delicate e sfuggenti, quasi a un passo dall’estinzione. Si potrebbe anche accennare ai fenomeni luminosi molto effimeri, quando per esempio un raggio di sole illumina certi frammenti sospesi nell’aria, ingrandendoli, dando loro uno sviluppo impensato. Una fonte per questi giochi illusori, per queste fate morgane, la Lambri la trova nei vetri che fanno specchio nelle nostre stanze, rendendo molto labile il confine tra il vero e il virtuale. Inseguendo queste vaghe apparenze la Nostra sfiora anche esiti di geometrismo, di arte astratta, che sarebbe meglio definire concreta, ma se ne ritrae immancabilmente per ridare un palpito di esistenza, di emozione a quegli esiti altrimenti troppo ben calcolati, troppo mentali. Beninteso il sottile stormire di fronde d’albero può fornire un ottimo motivo, per le sue ricerche, che si situano sempre a un passo dal vuoto, ma riescono però ad alimentarlo, a dargli un qualche palpito di esistenza, malgrado tutto. Potremmo anche trasferire questa avventura dall’ambito del visivo, in cui si colloca, a quello del sonoro, ricordando che, come ci ha insegnato il grande taumaturgo John Cage, il silenzio assoluto non esiste, al limite avvertiamo, almeno, il battito del nostro cuore. Allo stesso modo, il viaggio della Lambri verso il vuoto, verso la pagina bianca, verso il nulla si anima pur sempre per un ultimo barbaglio, per lo stormire, se non proprio di fronde, almeno di qualche particella, che sosta appena un momento, prima di venire inghiottita per sempre nel nulla.
Luisa Lambri, Milano, PAC, fino al 30 maggio.

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