La solita visita virtuale, più che mai obbligatoria, ora che siamo quasi tutti in arancione o in rosso, mi porta a Brescia dove l’amico Minini ospita nella sua galleria un’ampia mostra di Peter Halley. Io ho avuto la fortuna di trovarmi a New York nel 1989 e di vedervi la mostra che Ileana Sonnabend aveva dedicato a lui, assieme ad altri artisti protagonisti di una svolta in atto, quali il massimo Jeff Koons, Haim Steinbach, il giovanissimo fiammingo Delvoye, nonché i più transeunti Bickerton e Vaisman. Io ne avevo preso lo spunto per uscir fuori dal mio solito schema bipolare, sul tipo chiuso-aperto, per passare piuttosto a uno schema hegeliano di tipo triadico, dove gli estremi della tesi e della antitesi trovavano conciliazione in un momento finale di sintesi. La tesi era stata il clima del ’68 con la sua condanna dell’arte fatta con strumenti tradizionali, a favore di un riscatto integrale del corpo, dell’azione, del comportamento in genere, cui era seguito il contraccolpo di quella che avevo chiamato “ripetizione differente”, cioè un ripetere certe forme del passato ma applicandovi un indice differenziale. La sintesi, praticata dagli espositori presso la Sonnabend stava nel riprendere certe soluzioni anni ’60, sul tipo della Pop e della Op Art, ma arricchendole con coefficienti di estro fino a sfiorare il kitsch, il cattivo gusto. Così ad esempio Koons riprendeva il monumentalismo di Oldenburg, ma applicandolo a oggetti sfiziosi e del tutto superflui. Steinbach, per cui si poteva parlare di una “scaffalart”, metteva in bella posa proprio su dei ripiani una serie di oggetti irrelati tra loro, di massima dissonanza reciproca, accostandoli come altrettanti “cadaveri squisiti”. Infine Halley riprendeva gli schemi di un geometrismo steso col tiralinee, ma evitando la trappola del monocromo, anzi, al contrario, attingendo al pantone dei colori più cacofonici tra loro, quegli stessi di cui si faceva, e si fa tuttora, ampio uso in studi professionali, in ambienti di rappresentanza, magari, oltre che a un colore sfacciato e aggressivo, facendo pure ricorso a pannelli di materia plastica, come per esempio fa lo svizzero Alter. Ho conosciuto personalmente Halley, andando a trovarlo nell’ atelier che in quegli anni aveva a Tribeca (che poi sarebbe il “triangle beyond Canal street”, con la genialità tipicamente yankee nell’adozione di toponimi). Ero stato incaricato dalla Tre M, produttrice dei noti fogliettini collanti, di produrre delle serie personalizzate, con immagini di un qualche artista sulle varie pagine, e una mia scelta era andata proprio a Halley, con cui ebbi un lungo colloquio in francese, vista la mia stentata anglofonia, ma lui era estasiato di poter usare a sua volta quella lingua neolatina, e di tenere con me una dotta disquisizione su Sartre e compagni. Poi egli è salito in alto e io sono disceso in basso, ora probabilmente non si ricorderebbe di me, ma io mantengo in pieno la mia predilezione per le sue tinte di squisito cattivo gusto, che sono poi quelle in cui un massimo pittore dei nostri giorni quale Bacon va a inserire le sue scene di crudele sadismo, di perversione sessuale, chiedendo all’irreprensibilità delle pareti di rendere accettabile, o invece ancor più clamoroso, il dramma esistenziale. Di questo ovviamente non c’è traccia nei mosaici di Halley, che pure si fanno ugualmente amare perché ben spaziati, ariosi, squillanti, offrendo un ottimo campionario delle cromie “di cattivo gusto” secondo cui si esprimono i nostri tempi.